La lunga notte

La lunga notte

Con la collaborazione di: pp0000584 e Agnus

 

Spegnere la luce, e all'improvviso sentire che il sonno ti abbandona. Il rumore martellante del silenzio fece scattare in posizione seduta Andrea, gli occhi fissi nella penombra e nel cuore un galoppare di cavalli impazziti. Niente, nessun suono, solo il sibilo di una notte senza stelle, cielo coperto da una coltre di nubi. Si alzò, raggiungendo il terrazzo, sul quale si fermò ad osservare la campagna circostante. Vivere tra la natura, gran cosa, pace e tranquillità, ma anche tanto silenzio, forse troppo. Andrea aveva ventiquattro anni, viveva nella piccola villetta con i genitori e da quasi quindici giorni trascorreva le notti su quel terrazzo, sul quale finiva con l'addormentarsi alle prime luci dell'alba. Una cosa strana per lui, abituato a dormire come un ghiro. Eppure, di punto in bianco, era iniziata l'insonnia, accompagnata da una serie di pensieri che ronzavano in lui come lampadine prossime a fulminarsi. Quella notte avrebbe piovuto, se lo sentiva, lo percepiva dall'odore dell'aria e dal muggire agitato delle mucche nella stalla. Ma quella notte Andrea non l'avrebbe passata sul terrazzo, in balia dei pensieri, no, sarebe uscito senza dire nulla ai suoi e andato in giro in cerca di risposte. "A quali domande?" pensò tra se, non riuscendo a dare un significato al disagio che nasceva in lui ogni volta che si sdraiava a letto.
"Sarà una lunga notte", la sveglia segnava le ventitre e diciassette. Era un sabato sera, e lui, un ragazzo come tanti, invece di essere in giro con gli amici, si trovava in mutande ad osservare le nubi in cielo. Si vestì in fretta e in silenzio raggiunse l'esterno della villa. Niente auto, né moto, solo le sue scarpe e i passi che lo avrebbero portato in città, tre chilometri sul ciglio della strada, senza una ragione, una meta, ma con la voglia di sapere cosa gli stava succedendo. Infilò le mani nelle tasche dei jeans, scrollò la testa e iniziò il cammino attraverso la notte.

Venti minuti, tra stradine di campagna e lampioni ingobbiti dal tempo, dalle fioche luci che raggiungevano a malapena il suolo, tra rumori di insetti che planavano sulla testa, frinire di grilli e il rombo lontano delle auto sulla statale. Andrea si sentiva confuso, quasi alieno in visita su un pianeta non suo. Eppure era nato lì, aveva calpestato quelle strade migliaia di volte. La notte rendeva tutto diverso, più irreale e spaventoso. Era massiccio, sapeva difendersi, ma solo, in mezzo alle tenebre, provò la sensazione di non essere in grado di gestire la sua esistenza. Si fermò, sollevando la testa verso l'alto, verso quelle nubi che improvvisamente lacrimarono a terra il loro dolore. "Mi bagnerò, mi ammalerò, per una stupida ricerca di risposte", la sua testa formicolava, mentre goccioline impalpabili rendevano l'aria più pesante. Alzò il cappuccio della felpa e accelerò il passo. Valutò la distanza dal centro in cinque minuti, tempo sufficiente per essere devastato dalla pioggia, che invece continuò a persistere sotto forma di pulviscolo. Un'auto da cui usciva musica dance a paletta passò oltre, seguita dalle urla dei ragazzi a bordo; guardò nelle due direzioni, quindi attraversò, trovandosi all'inizio della cittadina. La scuola elementare sulla destra, il parco in cui aveva imparato ad andare in bicicletta poco più avanti. Conosceva ogni angolo, ogni sasso di quel luogo, eppure quella sera sentiva che qualcosa poteva disturbare l'idea che gli apparteneva, quella di essere uguale agli altri. Una sensazione senza ragione apparente, ma legata all'insonnia che lo stava minando, al vagabondare per strade amiche e quella pioggia che rinfrescava la pelle. Girò in una strada che portava verso il centro storico, luogo pullulante di pub e bar. Non sapeva se i piedi lo avrebbero condotto là, ma qualcosa lo spingeva a cercare risposte tra la gente.

La pioggia aveva svuotato le strade. I gruppi che uscivano dai locali, si muovevano veloci verso le auto.
Solo qualche coppietta indugiava incurante della pioggia, riparandosi sotto i balconi.
Però le luci dei lampioni e delle vetrine, toglievano alla notte quella sensazione di mistero e tristezza che si stava portando dietro da troppo tempo.
L'insonnia prolungata gli aveva costruito come un alone intorno alla testa, suoni e colori avevano perso spessore, ma in quella notte resa opaca dalla pioggerellina insistente, la testa si stava snebbiando e per la prima volta da mesi pensò alla sua vecchia compagnia. Gli amici del sabato sera, quelli con cui fin dai tempi del liceo aveva l'abitudine di passare le serate al pub, con una birra e tante cazzate.
Si avviò verso il Lion's. Il passo era più deciso.
Sì, avrebbe passato la sera con gli amici, si sarebbe rilassato e non avrebbe pensato a niente per un paio d'ore. Tutto sarebbe stato come prima. Già come prima...
Il passo rallentò senza che se ne rendesse conto.
Poi pensò all'atmosfera del Lion's, al rumore, alle risate, alle pacche sulle spalle...
Erano tutti là ne era certo, attorno al solito tavolo in fondo. Avrebbe preso una sedia e si sarebbe accomodato in mezzo a loro, come se non si fosse mai allontanato.
E loro sarebbero stati lì, tutti.
Tutti, tranne Giacomo.
Già, tranne Giacomo.

Quel pensiero affacciato alla sua mente all'improvviso gli tolse la voglia di entrare nel locale. Superò la porta attraverso la quale si riverberava una musica assordante, poi girò l'angolo ed entrò nel primo bar che incontrò.
Era uno di quei bar che lavorano al mattino con le colazioni e forse fino all'ora di cena con gli spritz. A quell'ora erano rimaste tre brioche secche e tre clienti anziani che guardavano la tele.
Il barista se ne stava appoggiato al bancone come se non fosse entrato nessuno, poi, proprio quando non poteva farne a meno si alzò di malavoglia e fece un cenno ad Andrea.
"Cappuccio, grazie" il barista cominciò a trafficare col bricco del latte ed intanto Andrea si sedette. Non gli dispiaceva lo squallore di quel posto, forse in un pub affollato non avrebbe potuto dar corpo ai suoi pensieri che quella sera, o forse da quelle sere, gli rendevano il sonno stentato.
Giacomo, il povero Giacomo, come ormai era uso chiamarlo dopo l'incidente. Ma solo chi non era presente in quell'occasione poteva nominarlo con il rispetto indifferente che il lutto comportava. Quel nome era un punteruolo straziante nelle carni dei suoi familiari, ma quelli che avrebbero dovuto essere i suoi amici sembravano essersi dati pace in fretta di quello che da successo quella sera. Lui, se ne rendeva conto in quel momento, non ci riusciva.

Eccolo, era nuovamente lì, ricomparso dalle profondità notturne, che rendevano Andrea nottam-bulo. Cosa era ricomparso? Non lo sapeva perfettamente, ma Andrea credeva che la cosa che lo faceva restare solo e sveglio notti intere si chiamasse dolore. Cosa ne sapeva Andrea del dolore, a ventiquattro anni? Ne sapeva già abbastanza. In primo luogo sapeva che il dolore era sordo. Una sensazione che parlava solo a se stessa e si rintanava nei luoghi bui, spenti e solitari. Poi sapeva che il dolore era anche muto, e non si poteva esprimere, non conosceva parole con cui parlarne. Il dolore per Andrea aveva un volto, questo sì, ed era il volto del suo amico Giacomo. Il viso sorridente che gli era rimasto impresso l'ultima volta che l'aveva visto. Rideva e scherzava al Lion's pub, assieme agli altri ragazzi della compagnia, prima di quella decisione fatale.
Non aveva senso chiamarla così. Ma quale decisione fatale? Come decine, centinaia di serate in allegria, Giacomo aveva preso la macchina per fare un giro, magari per andare a rimorchiare ragazze al Mito, la discoteca che tutti i ventenni frequentavano, allora, ma che adesso sembrava in un altro mondo, troppo lontano, troppo spensierato. E Giacomo era saltato su in macchina, allegro e sorridente come sempre, il braccio fuori dal finestrino, perché era estate, era sera, era sereno, ed incitava gli altri ad andare. In quattro salirono in auto quella sera, e la notte aveva presto ingoiato i fanalini rossi infondo alla strada del Lion's pub. Andrea era uno di quei quattro.
La luce dei fanali faceva scorrere la campagna buia e placida troppo velocemente, gli alberi si rincorrevano sul ciglio della strada, i cartelli con le bande nere e bianche comparivano improvvisi come fantasmi, fino all'ultimo. Poi il ponte sul canale, lo schianto, lo sbalzo, il buio, il freddo, il nulla del ricordo. Andrea conservava solo la reminiscenza di una notte troppo lunga.

Pian piano iniziarono a riaffiorare, nella sua mente, dettagli spiacevoli, che credeva dimenticati per sempre. L'arrivo dei soccorsi, che erano stati veloci, ma non abbastanza per Giacomo. Lui si era liberato da solo, gli altri due erano stati tirati fuori facilmente. Giacomo no, era rimasto incastrato e, nonostante gli sforzi di tutti, era rimasto per troppo tempo senza ossigeno, svenuto nell'acqua gelida.Rammentò improvvisamente di aver cercato di aiutarlo, senza riuscirci e, al limite della​ resistenza fisica, di essere tornato in superficie a prendere aria.
Si rese conto che, forse, proprio questo era quello che più lo faceva star male. Forse non aveva fatto abbastanza. Avrebbe dovuto insistere, provare di più...Ma ormai, non aveva alcun senso tormentarsi ulteriormente.
Ricordò l'arrivo dei genitori di Giacomo sul posto, le urla strazianti della madre, che dovette essere sedata dal personale infermieristico.
Gli sovvenne che, quando la madre di Giacomo aveva iniziato a gridare, con quel lamento spaventoso da animale ferito a morte, aveva pensato alle donne siciliane, o arabe, e alle loro litanie negli eventi funesti. Il dolore non ha confini, di sesso, di razza, di religione, colpisce tutta l'umanità allo stesso modo, pensò Andrea. Rivide Il padre di Giacomo, accasciato, le mani nei capelli.
Quel lutto improvviso li aveva strappati alla spensieratezza della gioventù, catapultandoli nel mondo reale, un mondo di dolore e morte. Con la certezza che nulla sarebbe stato come prima.

Ma la vita continua.
Lo dicevano sempre, lo dicevano tutti. E forse sì, avevano ragione. Bisognava in qualche modo metterci una pietra sopra e pensare al futuro, come avevano fatto tutti i suoi amici, più o meno. Sono cose che possono capitare nella vita, del resto, siamo vivi proprio perché possiamo morire. Bisognava farsene una ragione. Un colpo di sfiga, e via, tutto finito. Amen.
Ma perché Andrea non riusciva a darsi pace?
Fissava la tazzina del cappuccino; la schiuma aveva preso una forma a spirale quando aveva usato il cucchiaino per girare lo zucchero, e da lì non si era più mosso, come catturato in un vortice ipnotico.
"Andiamo Andrea", disse Giacomo. "Te lo vuoi bere 'sto cappuccino 0 no? Ancora un po' che aspetti e diventerà più freddo del fondo di un canale gelato."
"C... come?" fece Andrea incredulo.
"Già, che ne puoi sapere tu."
"Ma chi... chi sei?"
"Lo sai benissimo chi sono, e sì, per rispondere ai tuoi pensieri, sono morto e fottuto."
Andrea alzò di scatto la testa e si guardò intorno impaurito.
"No, non fare quella faccia", continuò la voce. "Non mi puoi vedere, ma mi puoi sentire. Credi di essere pazzo, lo so, è quello che credono tutti, ma non ha importanza, perché comunque vada penserai di esserti immaginato tutto. Ma non sono venuto fin qui solo per spaventarti; è perché, dopo tutto, sono in debito con te."

Si sentì spaventato ed impaurto, perso in quella tazzina che mostrava la sua schiuma mutevole ad ogni giro di cucchiaino. Respirò a fondo, chiuse gli occhi ed attese che la calma tornasse a farsi strada in lui. Era scosso, ed i ricordi che prepotentemente erano tornati in vita potevano avergli creato una sorta di incubo ad occhi aperti. Era solo un ragazzo, con dietro alle spalle un'avventura che avrebbe cambiato il futuro a chiunque.
"Sei l'unico che ci abba provato, l'unico a gettarsi in quel liquido freddo e torbido, il solo che ha pianto il giorno del funerale e che pensa di aver sbagliato. Nessun altro lo ha fatto, forse perchè troppo superficiale o per la certezza che la vita, anche senza di me, andava avanti lo stesso".
La schiuma cadde al di fuori della tazza, si rovesciò sul bancone rapprendendosi in forma di cuore. Il barista lo guardò, sbuffando e provvide a pulire con la spugna.
"Sono in te, nella tua testa, reale come se nulla fosse accaduto. Non ci starò per sempre, mi è stato concesso poco tempo, ma questo tempo lo voglio dedicare a te, per estirparti dalla mente il senso di colpa".
Andrea poggiò cinque euro e si alzò, non aspettando nemmeno il resto. La pioggia lo accolse, accompagnata da un vento tiepido, mentre muoveva i passi verso casa di Giacomo. Ci arrivò in pochi minuti, come spinto da qualcuno, forse il suo stesso amico.
"Passa la mano sopra al tettuccio del cancello, troverai la chiave di casa. Non preoccuparti, dentro non c'è nessuno. I miei sono nella villa al lago, mentre mia sorella è andata a dormire dal ragazzo. Entra, non titubare, ho bisogno che tu veda una cosa".

Sentì una vertigine e un dolore al petto. La voce di Giacomo rimbombava nella sua testa come un richiamo ancestrale. Si domandò, preso dal vorticoso turbinio di emozioni miste alla paura e all’ incredulità se ascoltare quella voce e darle credito. “ Sono stanco e assonnato tanto da non discernere più tra la realtà e la fantasia e lasciare spazio alla pazzia?”. Eppure, l’istinto gli chiedeva, con una grande spinta che proveniva dal suo centro, dalla sua pancia, come fosse un senso di fame profonda, di ascoltarlo. Di trovare delle risposte. Di chiudere un conto aperto e vedere il prezzo da pagare. Non poteva dirgli quanto gli volesse bene e quanto forse, per mancanza di sensibilità, aveva glissato, dandolo per scontato. Un bisogno che provò anche pochi anni prima quando la sua adorata nonna dalle tasche sempre piene di caramelle mou si era spenta in cui sentì un fortissimo senso d’impotenza. Fu la prima volta che si vide piccolissimo e solo nell’universo. Pieno di dubbi e rimorsi. Lui che aveva avuto un’educazione frammentaria e grezza, tipica degli ambienti della campagna veronese. Un’infanzia tra prati e colline a rincorrere i conigli, a contare gli alberi e a giocare a nascondino dietro le balle di fieno. Giacomo amava celarsi sotto cumuli di foglie secche in autunno, uscendo poi sudicio di fango e impolverato di terriccio bruno. Si buttavano nei ruscelli come se fossero oceani e saltavano i fossi per il lungo. Scorse nella sua mente frammenti veloci come foto vive e nitide, come se i divertimenti infantili si fossero svolti ieri e invece, era passato più di un decennio in un solo battito di ciglio. Se solo si potesse riavvolgere il nastro e riscrivere un passato mai vissuto...invece di uscire quella sera, stare a casa a guardare un film o a giocare ad un videogame. Questo fu il suo l'ultimo pensiero prima di ripiombare nello sconcerto totale dato dalla voce udita dalla sua testa e dalla sua pancia.

La porta si aprì su un ambiente noto, fatto di ricordi e voci. Il divano nell'ingresso, la libreria in cui poteva scorgere ancora i fumetti di Dylan Dog, la porta che conduceva al corridoio su cui si aprivano le stanze ed in fondo la cucina. Si sentì un ladro di emozioni, un esploratore in cerca di indizi dimenticati. La stanza di Giacomo, la prima a sinistra, chiusa come tutte le altre.
"Entra" l'amico lo spinse ad afferrare la maniglia. Lo fece, con gli occhi che si stavano riempiendo di lacrime. Sapevo che ciò che l'attendeva sarebbe stato un altro duro colpo, una serie di ricordi a cui non poteva sfuggire. Accese la piccola lampada posta sul mobile accanto alla porta e rischiarò l'ambiente. Tutto era come se lo ricordava, ogni particolare mantenuto come se Giacomo dovesse tornare a casa da un momento all'altro. Un silenzio irreale, anche nella testa, e di nuovo quel senso di vuoto che dallo stomaco scendeva nella pancia. Il computer, la Playstation, la piccola pista con le auto da corsa, e poi libri, fumetti e poster appesi alle pareti. Ebbe un capogiro e dovette sedersi sulla sedia accanto alla scrivania. Si portò le mani alla testa e una lacrima scese sulla guancia.
-Che ci faccio qui?- disse ad alta voce, singhiozzando dal troppo dolore.
"Per capire, per comprendere, perchè è giusto che tu sappia..."
-Sapere cosa? Che non sono stato capace di salvarti? Che quella sera avremmo dovuto essere a casa a guardare pallosissimi film di fantascienza? Che io continui a passare il resto dei miei giorni nel rimorso di un ricordo dannatamente incancellabile?...-
Alcuni secondi di silenzio, poi Giacomo tornò a parlare nella sua testa.
"Per sapere che io ero innamorato di te...-

-Innamorato..- balbettò Andrea
-Si, ma non come pensi tu, insomma non ho mai pensato di fare robe strane, non mi era mai successo con nessuno, e quando mi è successo con te ho capito che sono cose rare, che non tutti possono comprendere..- rispose Giacomo
-Neanche io comprendo..- -Va in camera mia, è di sopra, dovresti saperlo no? guarda tra la libreria dovrebbe esserci ancora il diario che tenevo, leggilo, anzi fai una cosa, portalo a casa con te, i miei genitori non sapevano neppure che ne scrivessi uno, è il regalo che voglio farti prima di andare.--Andare? Resta ancora Giacomo, ci sono tante cose che voglio chiederti..-
-Non ho più tempo, saprai tutto quello che c'è da sapere quando leggerai il mio diario. Andre ti prego sii felice.-
La voce di Giacomo si disperse come quando la radio perde potenza, e fastidiosamente la canzone che ti piaceva si trasforma in un'altra che detesti. La voce di Giacomo divenne silenzio, e poi paura. Andrea corse fino a casa sua stringendo quel diario di pelle tra il petto e il cuore. Aveva il fiatone quando raggiunse camera sua, gli occhi velati da grosse vene rosse. Gettò quel diario sul letto con una tale forza che esso rimbalzò sul cuscino finendo a terra. Due pagine rimasero spalancate. Andrea si accorse di averlo gettato con troppa violenza forse. Troppa rabbia, troppa paura. Lo raccolse dal tappetto nero ai piedi del letto e lesse sottovoce.
"Andrea è un dono, non sono mai stato bravo nella vita neppure per ricevere un regalo a Natale, eppure se esiste un Dio, ha pensato a me quando l'ha messo al mondo.Mi ha scongelato il cuore senza saperlo, con me non troverà mai ciò che cerca, ma se esiste il Paradiso in terra, dallo a Lui."

Le mani di Andrea tremavano come in balia di una tempesta. Le sue dita pizzicavano corde invisibili di un piano mai esistito. Il diario aveva centinaia di pagine da leggere, ma per quella sera ne aveva abbastanza di rivelazioni. Gli occhi gli facevano male come se avesse fatto a botte con i suoi demoni, ma nessuno lo aveva sfiorato se non tre righe di un inchiostro nero come la notte. Dentro di sè la paura di aver perso un treno troppo grande, e di averlo perso inconsapevolmente, allo stesso modo la paura per qualcosa di troppo diverso rispetto alla realtà che pensava di vivere. Non aveva mai guardo un ragazzo con interesse, non l'aveva fatto neppure con Giacomo, eppure l'idea di averlo perso, adesso, era più insopportabile di prima. La lunga notte che viveva non era l'estenuante passare delle ore, la notte Andrea ce l'aveva dentro, la sua notte copriva il Sole,le stelle, faceva apparire tutte le cose di un grigio spento. La notte che pensava fosse passata in realtà, non si apprestava a passare, forse perchè siamo distratti da mille cose, forse perchè non ci facciamo mai una domanda non prima che qualcuno ci dia la risposta. Forse certe notti dovrebbero essere spazzate via dalle nostre dita, pizzicando pianoforti visibili, baciando labbra vere, ascoltando la voce di chi sembra essere andato via, mentre in realtà è ancora nel tuo cuore. La notte non passa se non si è pronti a svegliarci. Andrea osservò il diario chiuso per trenta minuti di fila, poi corse a rovistare nel suo porta penne, prese un pennarello rosso, scelse l'ultima pagina, ancora vergine. A lettere cubitali scrisse: Arrivederci presto. Non sapeva se in realtà aveva ragione Giacomo, non sapeva se per caso lui fosse rimasto, cosa sarebbe successo, ma se esisteva un Paradiso, sperava che Lui lo stesse già vivendo.