Graffi sul cuore

Graffi sul cuore

Genere: diario


24 Dicembre 2010
L'aria fredda di fine dicembre aveva il sapore delle feste. Da ogni angolo della città lucette colorate e musiche natalizie accompagnavano la corsa agli ultimi acquisti di tantissima gente. Il fattorino quella mattina si era presentato presto a casa mia. Aprii la porta, firmai e presi quel pacco. Ci salutammo con un augurio di un Buon Natale. Rientrato in casa, senza pensarci tanto, lessi il bigliettino che accompagnava quel dono. «Macchie, sfumature, colori che si mischiano … graffi sul cuore come murales a ricordarmi di te. Adrian Marès».
Dovetti sedermi prima di riprendere fiato e poi decisi di aprire il regalo. Quel quadro … un turbinio di emozioni contrastanti mi attraversarono, mentre la mente annaspava in cerca di quell'equilibrio che ero riuscito a costruirmi dopo anni e anni di lotte con me stesso. «Marco, chi era alla porta?» gridò Marta dalla cucina mentre era alle prese con il cenone di Natale. Non sentii neanche le parole di mia moglie, avevo gli occhi fissi su quel quadro, su quel bacio e mi ritrovai a ripensare a quando, solo cinque anni prima, ero stato alla galleria d'arte. Avrei dovuto solamente fare qualche foto alle opere di un pittore post-moderno, Adrian Marès, e intervistarlo. Fino a quando ci ritrovammo di fronte al quadro in questione e i nostri sguardi si incontrarono per la prima volta. Da quel giorno fu un continuo cercarsi, appuntamenti incastrati tra i miei impegni alla redazione e le mostre in giro per l'Europa di Adrian. Una passione travolgente, un amore sincero e la paura di non essere mai adeguato, di essere sbagliato.


La voglia di indossare la maschera per non saper svelare il volto della vergogna, quando con Adrian tutto ciò che ero in grado di indossare era il suo odore, la sua pelle. La libertà di sentirmi banalmente vero, innocentemente coinvolto da quello sbocciare e mescolarsi di colori e macchie in ricami dell'anima e del sentire che non so trovare altre parole per definirlo, se non sentimento. Ero un uomo sposato, un professionista affermato, la mia penna infilzava fendenti mortali ed accarezzava le anime slegando gli occhi in lacrime. Avevo sublimato il mio io sciogliendolo tra le righe dei testi scritti, finché non incontrai Adrian, che faceva la stessa cosa: sublimava le sue emozioni colando e trasudando colori e macchie, accarezzando la tela, danzando sui tessuti bianchi e sterili trasformandoli in poesia, in melodia. La sola differenza tra me e lui era che Adrian era libero, da legami costruiti per convenzione, da pregiudizi sociali, dalle maschere. E fu così che sfilò il mio costume di leone ruggente, di fiera dal potente ringhio, mutando il mio fragore in miagolio di micio indifeso, per la prima volta libero di sentirmi vulnerabile, rendendo giustizia ai miei istinti. E lo trasformò nuovamente in fragore eclatante, caricando le mie pulsioni di un orgasmo mai provato.
Quindi eccomi, mi ritrovavo perso in quelle feste troppo tristi, con il suo quadro in mano, a non riuscire a trattenere le lacrime che piano scioglievano la mia maschera, il mio trucco da uomo normale. Di lì a poco i miei occhi avrebbero dovuto dare una spiegazione che, con tutte le parole che avevo intessuto nella mia vita, non seppi mai trovare, per sincerarmi l'anima, per giustificarmi, per farti capire che tu comunque non avevi colpe, quelle che ti dovevo, unica donna della mia vita.


Marta mi trovò che sognavo ad occhi aperti, seduto sulla seggiola moderna che arredava il corridoio d’ingresso della nostra casa. Fece capolino dalla porta della cucina, emergendo come un carpentiere che esce dalla fonderia, il viso interrogativo, accaldato, i capelli ricci biondi, un tantino arruffati, l’espressione sorpresa: «Marco! Chi era?» Marta era trafelata dagli ultimi preparativi per il pranzo di Natale, perché parecchio in ritardo, visto che quella sera di vigilia avremmo dovuto trascorrerla dai suoi genitori, fuori città; non fece caso alla mia aria trasognata. Ridestandomi la guardai: «Nessuno, solo il fattorino…», risposi alla spiccia. Marta sbuffò, glissò, ma rimase per un istante sulla soglia della cucina: «Potresti darmi una mano, comunque!» Protestò infine, aspettandosi un immediato riscontro positivo da parte mia, il suo compagno. Ci misi un secondo ad alzarmi dalla sedia, ma non per solerzia: «Scusami, prima…», ma non sapevo che dire, quindi non improvvisai nemmeno una scusa: «…prima devo fare una cosa!» Girai l’angolo della porta delle scale e salii in camera da letto, con il pacchetto che avevo nascosto puerilmente dietro la schiena. Come fare? Come fare non sapevo! Dio! Quel pensiero mi aveva attraversato la mente pochi minuti prima, volevo cacciarlo via, volevo impedirgli di insinuarsi nella mia mente, come stavo facendo fin da quel giorno, da oltre cinque anni, quando lo sguardo castano come il miele di Adrian Marés mi aveva letteralmente graffiato. La ferita e la lacerazione profonda nel mio cuore non era mai guarita ed ero conscio di averla alimentata, manipolata, strumentalizzata, fino ad imputarla colpevole del rapporto che con Marta si stava incrinando. Mi sedetti sulla sponda del letto con le mani tra i capelli. Ero un giornalista, per cui decisi di fare quello che sapevo fare: scrivere!


"Non so quanti siano questi graffi, ma li sento sulla pelle e mi entrano dentro, nell'anima. Li sento quando ti immagino da lontano e dentro sanguinano i miei pensieri che, fino a ieri, vivevano la normalità di un’esistenza che non mi rifletteva. Li sento negli sguardi che, addosso, schiacciano forte su quelle ferite già aperte che non si rimarginano.
Ora, riguardo il mio passato come di un altro, come se non fosse accaduto, mi sento come un albero spoglio a guardare il cielo ad implorare sono io, nudo di tutte le mie paure, sono così e posso sentire la mia voce urlare, sono libero. Ogni colore mi vede ritratto in quel bacio tra noi, a suggellare il passaggio tra vivere fuori e morire dentro. Vivere quello che non posso più nascondere e morire di quello che dentro invece nasce ogni momento.
Ora su ogni muro che troverò davanti a me vedrò l'immagine di noi nei miei occhi. Non più quella della solitudine, dell'apatìa di un’esistenza fuori dalla mia apparenza, ma quella di vivere la mia essenza. Non pensare che le mie lacrime in queste righe non ti lascino libero ma, anzi, liberano entrambi.
Tutti i tuoi quadri hanno imprigionato i miei dubbi e le mie vicissitudini dipingendoli come cose astratte che non mi appartengono, invece hanno cambiato quello che percepivo come un paesaggio freddo e uguale. Non mi graffiano più le parole, gli sguardi, ma la paura di perdermi in qualcosa che non sia io”.
Ora sono pago nell'anima e con la stessa serenità lascerò il mio pensiero anche a Marta e ai nostri sogni, che saranno liberi di decidere delle nostre vite, senza tenere dentro questa esperienza e avere il coraggio di riprovare ad amare solaménte.

“Mia dolce Marta,
la fatica ad esternare a voce sentimenti ed emozioni mi sta portando a scriverti. Anche perché, sono certo, diversamente i tuoi occhi mi incollerebbero un'altra volta a te. E non lo posso permettere. Quando leggerai questa mia lettera sarò ormai lontano. Lontano da te, da un passato forse scomodo e anche dal mio stesso cuore. Lontano da un amore incomprensibile a molti, ma che mi ha stravolto la vita, i sensi, graffiato l'anima. Solo ora mi rendo conto di quanto sono stato stupido, incoerente e vigliacco. Ho avuto paura Marta. Paura di quello che avrebbero pensato gli altri. Paura dell'amore. Quello vero, provato per Adrian e così mi sono rifugiato tra le tue braccia e il tuo dolce sorriso. Scusami.
Pensa a quanto sono stato fragile e sciocco. Io, che ho sempre fatto della libertà di scelte e pensiero una battaglia. Ma sai, è più semplice quando non si lotta per qualcosa di personale.
Ora il destino ha giocato le sue carte e quel quadro ha riportato a galla tutto, smascherandomi.
Lo so, in questo momento ti sto disintegrando il cuore, ma credimi... mentre scrivo muoio insieme a te.  Ho fatto di tutto Marta, ci ho creduto davvero in quel noi che mi avrebbe regalato l'eternità. Non ci sono riuscito. Appartenevo già a qualcun altro. Da prima di te, forse da prima del mondo. Tu non hai nessuna colpa, sei una donna straordinaria. Ora starai piangendo, lo so, e lentamente starai torturando le tue labbra con i denti; fai sempre così quando sei nervosa o triste. Mi manca il fiato. Segui sempre i battiti del tuo cuore mia piccola Marta e sogna colori. A me è rimasto solo il nero. Perdonami se puoi. Marco.”

Non è stato facile lasciare tutto e tutti, ma era la cosa più giusta da fare. Ora sono qui, su questa nave, con la prua che punta dritta all’orizzonte. Il vento mi scompiglia i capelli e la brezza marina mi riempie cuore e polmoni. Una nuova vita, un nuovo inizio.
I miei occhi si perdono tra la spuma delle onde, nel blu. Quello stesso blu che Adrian aveva usato per raccontare di noi, del nostro amore incondizionato.
Ci voleva il suo tocco di colore, per far vibrare le corde della mia anima, che per troppo tempo è rimasta imprigionata nel nero con cui avevo tinto il mio cuore.
Guardare quel quadro è stato come guardarsi allo specchio e d’improvviso riscoprirsi. Sì, mi ero perso. O più semplicemente non avevo avuto il coraggio di scegliere me. Perché era più facile assecondare le convenzioni, che affermare la propria identità. Meglio adeguarsi alle apparenze, che affrontare gli sguardi della gente, il loro giudizio, le loro parole.
Ma l’immagine che affiorava da quel blu era nitida, chiara: non voleva apparire, chiedeva di affermare la propria identità.
In quel momento ho levigato le mie angosce, le mie paure, rompendo le catene con cui io stesso mi ero legato. E nello scrostare via dal mio cuore quel buio, come in un graffito, mille sfumature sono esplose. Questo sono io, questo è il mio vero volto. Non ho più paura, non voglio più nascondermi: sono qui e guardo avanti.
Lascerò che la vita graffi via quei frammenti di nero che ancora faticano a staccarsi, perché voglio essere libero. Di essere me stesso, a qualunque costo. D’ora in poi il colore sarà il vestito della mia anima, la mia impronta nel mondo.