Per una ragione sola

10.03.2015 15:01

Con la partecipazione di Lidia Popolano

Le mani lungo i fianchi, abbandonate, quasi come un pupazzo di stoffa gettato in un angolo e dimenticato. Gli occhi come pezzi di vetro, affacciati a quella vita che stava lentamente scivolando via. Emilio sapeva di dover seguire quel destino che l'aveva messo alla prova più di una volta nei quasi cinquant'anni della sua esistenza. Si era sempre rialzato, rimboccato le maniche e affrontato le sfide con coraggio e determinazione. Ma ogni volta un pezzetto sembrava sgretolarsi, quella certezza che lo aiutava a mettersi in piedi impiegava sempre più tempo per farlo. Fino a quel momento, l'ultimo, in cui la roccia della determinazione era crollata in tanti piccoli sassolini, rovesciandosi sull'anima e soffocandola. Il sole all'orizzonte bruciava ancora, il caldo di quell'estate sapeva di vita, di abbracci e dolci promesse, come quando da giovane amava rivolgerle a Stefania. Lei, la parte più nobile della sua esistenza, quella che lo aveva rapito con la dolcezza di un sorriso, lo scopo primario della sua vita. Stefania che lo aveva abbandonato una settimana prima, esalando l'ultimo respiro tra le sue braccia. Che senso aveva ora il mondo senza di lei? Che significava vivere, camminare per le vie del mondo se il suo bastone gli era stato rubato? Spostò pigramente la testa, in modo da osservare la strada sotto di lui. Poca gente, il mondo visto da lì sembrava irreale. "Siamo formiche" pensò, "piccoli animaletti che si affannano per nulla". Voltò la testa dall'altra parte e incontrò la campana in bronzo, la ruota e tutti i componenti di quella meravigliosa invenzione che ricordava a tutti lo scorrere del tempo. Una chiesa, la sua chiesa, dove era stato battezzato, aveva giocato in parrocchia e infine sposato. Quale posto migliore per mettere fine ad un'esistenza senza più ragione di esistere? Un salto e poi più nulla, senza pensieri, per una ragione sola...

Sensazioni fuggevoli, quali sogno, una patina opaca che scende sugli occhi, la pelle che sente tutt'intorno dell'ovatta, rumori trasognati interrotto da mozziconi di frasi, pezzi di musica, risate argentine, singhiozzi, brani della vita con lei tutti mescolati, impossibili da discernere, una musica unica, una sinfonia meravigliosa, una sensazione di compiutezza impossibile da definire e distinguere, vita contro morte. E la morte sta arrivando. Incredibilmente lenta. Luce abbagliante poi una voce che risalta sulle altre. Appena appena. Tanto da scaldare il buio e schiarire la sinfonia che si va spegnendo. Una voce chiara e distinguibile tra mille. Proprio quando pensava di essere morto. Quando si era rassegnato alla morte. Una voce femminile.

Ne tecnicamente defunto, nè così giovane per partire per le Americhe. Emilio è uno stagno secco, un tempo animato da cose bellissime. Tutto intorno una giostra colorata, ancora funzionante, sulla sella dei cavalli meccanici ancora bambini allegri. Uno stagno secco e uno sfondo di luce. Potrà mai la luce contaminare il cuore arido? Non vi cresce più nulla, non senza le cure amorevoli di Silvia. Avevano persino progettato la loro morte un giorno, un giorno di fiori e profumi, con la teste alla rovescia perdute tra l'erba. Si erano detti che sarebbe accaduto insieme, nel loro letto, tra le lenzuola fresche di giornata, tra le vecchie foto amate e tenute al sicuro. Si erano detti che morire nella sua tragicità sarebbe stato bellissimo, perchè avrebbero percorso insieme anche quella strada misteriosa. Avrebbero scoperto le stradine buie mai esplorate da vivi, assaggiato nuovi drink, osservato nuovi lampioni, visto una nuova luce inumana e chissà cos'altro. Poi tutto era finito in una risata, la sua risata. Leggera e chiara come una poesia imparata a memoria, che custodisce ugualmente la bellezza di ripeterla ancora e ancora. Non era stato così, in un giorno freddo, troppo diverso da quello delle promesse, in un giorno gelido, senza profumi, senza colori Silvia era andata via senza preavviso, come un ramoscello che si spezza sull'onda di una vita perfetta. Emilio non l'aveva mai accettato fin in fondo, ogni promessa è sacra, e morire adesso, senza aspettare il momento prestabilito, morire e raggiungere Silvia, così come aveva fatto lei, senza avvertire nessuno, senza lasciare un biglietto, sarebbe stato il modo esatto per ricongiungersi alla felicità persa. Ma quella voce di donna, mentre lui continuava a fissare il baratro, lo risvegliò da quell'estasi strana e folle. La stessa bellezza di sua moglie, gli stessi occhi leggeri, la stessa mania di amare. La donna che gli stringeva il braccio era sua figlia.

Si vide riflesso nei suoi occhi, un uomo senza più nulla a cui aggrapparsi, senza l'unica ragione che aveva per rimanere vivo, un uomo a cui era franato il suolo sotto ai piedi lasciando un vuoto enorme, un uomo che dentro a quel vuoto voleva scomparire, che da quel vuoto voleva farsi inghiottire.
Sentì lieve, ma ferma, la mano della figlia sul suo braccio.
Come in trance abbassò lo sguardo sulla mano come per essere ancora più certo che fosse vera e poi lo alzò per incrociare nuovamente quello sguardo che gli era familiare, ma che nello stesso tempo portava l'impronta di quell'altro sguardo, quello da cui non avrebbe mai voluto staccarsi, quello che avrebbe dovuto accompagnarlo anche oltre la morte e che voleva ardentemente tornare a vedere.
"Papà, non mi lasciare. Non posso perderti, non posso perdere anche te. Ne morirei"
"No, piccola mia, tu non morirai, non è giusto. Sono io che non posso restare, che non ho la forza di restare".
Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime mentre la sua mano non lasciava il braccio del genitore. Nel suo sguardo c'era tutto il dolore che mille parole non avrebbero potuto esprimere.
"Non andartene, non ancora. Stai ancora un po' con me. Parlami, ti prego".
Mentre le lacrime sgorgavano copiose da quegli occhi che lui avrebbe voluto veder solo sorridere, per un attimo Emilio pensò di fermarsi ancora un momento.

Dette ancora uno sguardo al baratro che si apriva sotto di lui. Era ancora così invitante! Tutto sarebbe finito. Il dolore, la frustrazione, quel senso di profonda apatia e prostrazione che non lo avevano più abbandonato. E lo avevano condotto fin lassù. Ma ora c'era sua figlia.
"Papà...ti prego..." la voce supplichevole e gli occhi colmi di lacrime. Stava soffrendo, per causa sua. E se si fosse gettato, quanto avrebbe sofferto? Com'era possibile che non si fosse reso conto del male che poteva causarle? Lentamente, quasi impercettibilmente, si mosse per tirarsi indietro. La figlia continuava a toccarlo sul braccio, temendo forse che, improvvisamente, si sarebbe buttato.
Quando finalmente poggiò di nuovo i piedi sul suolo, padre e figlia si abbracciarono a lungo, singhiozzando, lasciando scorrere e fluire il dolore. "Insieme..." sussurrava la ragazza "Insieme.." ripeteva l'uomo, in una sottintesa promessa di condivisione di quell'insopportabile peso.
Scesero lentamente la lunghissima serie di gradini che conduceva all'ingresso laterale della chiesa. Una volta arrivati in fondo, si guardarono negli occhi. La ragazza asciugò le ultime lacrime dagli occhi del padre, poi, guardando verso l'interno, disse "Credo che dovremmo entrare" L'uomo annuì. La maestosità e il silenzio li accolsero. La luce delle candele illuminava appena l'altare, sormontato da lucenti canne d'organo e, più in alto, da finestre decorate con preziosissimi mosaici. Sul soffitto, un affresco raffigurante una Madonna con bambino. Sostarono qualche istante in silenzio, poi la figlia condusse il padre sulla panca più vicina. Quando furono seduti, lei appoggiò la testa sulla sua spalla. Rimasero così, immersi nella consapevolezza che solo trovando la forza uno nell'altra, avrebbero potuto andare avanti.

"Tutto è iniziato e finito qui. Ci siamo promessi eterno amore, com'era bella Stefania avvolta in nell' abito bianco. I nostri sguardi rivolti al futuro, i nostri cuori uniti, credevamo di essere immortali, il nostro amore ci avrebbe preservato per sempre. Poi sei nata tu e la nostra vita si è illuminata.Queste mura di pietra hanno accolto i tuoi vagiti, tua madre era così orgogliosa di te, un piccolo batuffolo rosa dagli occhi curiosi. Settimana scorsa poi mamma si è spenta e anche io, per sempre". Emilio si scostò leggermente cercando di ricacciare le lacrime che gli rigavano il volto segnato, la figlia appoggiò la testa sulle sue gambe come quando da piccola si accoccolava a lui. "Ti ricordi papà quando tu e mamma venivate nella mia camera per il rituale della buonanotte"? "Mi acciambellavo sulle tue gambe e mentre mi accarezzavi i capelli, mamma cantava la ninna nanna, a volte anche la tua voce si univa a quel canto melodioso. Eravamo felici e le vostre note mi cullavano nel sonno. Il mio giorno preferito era la domenica mattina quando mamma alzava il volume della radio e ballava con la scopa in volteggi improbabili, il suo sorriso era contagioso. Siamo fortunati papà, qualcuno ricerca la felicità senza mai raggiungerla, noi l'abbiamo provata e la ritroveremo insieme".Si raddrizzò, guardò il padre negli occhi svelando un leggero rossore sulle guance.La sua mano andò a posarsi delicatamente sul ventre.La vita va avanti papà, abbiamo ancora tanto amore da donare, dentro me cresce una piccola creatura che avrà tanto bisogno di te. Sarà una femmina e la chiameremo come mamma. Avrà il suo stesso sorriso, la stessa voglia di vivere. Emilio appoggiò la mano scarna sull'addome della figlia, no la vita non era finita Stefania sarebbe rimasta con lui, per sempre.