L'ultimo viaggio di Samwise Gamgee

21.03.2016 23:46

 

 

La mattina del giorno di mezza estate dell’anno 1482, Samvise Gamgee smise di appartenere alla Contea. Teneva ancora quelle mani ormai ischeletrite strette nelle sue come se Rosie Cotton, la sua Rosie, non avesse lasciato per sempre quel loro mondo, salutandolo con un ultimo, lieve e stentato sospiro.  
Aveva atteso quell’istante negli ultimi tre giorni trascorrendoli seduto al suo fianco, assopendosi di tanto in tanto per periodi sempre più lunghi man mano che la stanchezza infiacchiva il suo corpo.
Sam non si rese subito conto di quello che era successo; solo pochi istanti più tardi, però, percorrendo con lo sguardo il profilo esile della sua amata lo trovò immobile, raggelato nell’ultima espressione spossata con la quale aveva lasciato la vita.
I figli gli furono subito accanto: Tom, dal sorriso impacciato e dall’animo gentile; Robin, l’impavido cacciatore che tanto aveva fatto penare i genitori per la sua temerarità; Bilbo e Hamfast che per un momento avevano sospeso i loro interminabili bisticci sulla conduzione della fattoria. Rosa e Cioccadoro piangevano in silenzio, così come avevano speso le ultime ore attorno al capezzale.
Primarosa e Robin, infaticabili giardiniere, brusche nei modi ma dal cuor d’oro, non si perdettero in chiacchiere: accompagnarono Sam in soggiorno, lo fecero sedere sulla sua poltrona, e mentre una preparava il tè, l’altra fece uscire tutti dalla stanza per comporre la salma.
Tutti si preoccuparono che Sam soffrisse il meno possibile, ma si dimostrò una vana illusione. Il soggiorno era affollato di hobbit, eppure si sentiva solo e disperato come quel giorno nella tana della mostruosa Shelob, chino su quello che credeva essere il cadavere di Frodo.
Gli era sempre stato raccontato che la morte di una persona cara veniva sofferta come una mutilazione, lo strappo di un arto quasi; ma quello che provava era molto più penoso.
Così chiuse gli occhi e finse di dormire nell’attesa che il tramonto disperdesse quegli invitati molesti e petulanti.

Il giorno seguente il funerale di Rosie Cotton richiamò hobbit da tutto il Decumano Sud. Famiglie che si erano perse di vista da decenni si reincontravano, curiose degli avvenimenti cui non avevano assistito, assetate di storie di famiglia ricche di racconti.
Il basso colle delle sepolture affiancava le mura cittadine come a rammentare i loro abitanti dell’ultima dimora di ognuno.
Il declivio calpestato dalla folla odorava di margherite schiacciate ed erba tagliata.
Attorno al tumulo,  bianchi fiori il cui profumo discreto e fresco si sarebbe sparso lieve ogni sera omaggiavano chi era giunto alla fine del suo viaggio nel regno dei vivi.
Il sindaco di Hobbitville, Tom Brandibuck,  così cantò:

Dolente l’alba si mostra
Al cospetto di Rosie la diletta,
Con i suoi raggi in filigrana d’oro
le accarezza il volto silenzioso.

Piangete figli chi vi donò la vita
Stringetevi l’un l’altro con amore
Perché la sera per ognuno giunge
non fatevi trovare impreparati.

Molte persone singhiozzavano senza ritegno; anche i semplici curiosi non riuscirono ad evitare la commozione, distogliendo lo sguardo per non darla a vedere.
Si fece silenzio intorno, mentre Sam prendeva la parola. Quante volte aveva intonato canzoni funebri; quanti discorsi pronunciati da sindaco durante i quali aveva attinto al suo buonsenso. Eppure, in quel mattino soleggiato ogni parola che gli saliva alla bocca gli sembrava inutile, vuota di quello che la sua amata aveva significato per lui e la sua famiglia.
Chiuse gli occhi per concentrarsi su cosa davvero Rosie avesse infuso nella sua esistenza: lasciò che l’ondata dei ricordi lo sopraffacesse quindi, come se ne fosse emerso con un’immagine nitida che gli rendeva evidente cosa avesse unito le loro vite, con la gola stretta nel pianto cantò:

Dono del cielo che non meritavo
Con i suoi baci risanato m’ero.
Mare d’amore nel quale fluttuava
Estasiato ogni mio pensiero.

Col vento dell’estate sei volata leggera
Ove i sempreverdi prati accolgono
Fiori gentili che profumano la sera.
Discreti e semplici, ma più dell’oro valgono.

La voce gli si strozzò ammutolendolo; restò come di pietra, nonostante i parenti e gli amici lo abbracciassero piangendo calde lacrime.
Le settimane trascorsero veloci, pur nell’afa sonnolenta che sembrava rallentare l’arrivo della sera. Immerso nel buio rallegrato dal frinire dei grilli, Sam presidiava la soglia di casa Gamgee seduto nella sua comoda poltrona. Aveva rinunciato ad aiutare i figli a preparare le viti per la vendemmia; usciva in paese il meno possibile per non incontrare ancora qualche lontano parente o conoscente che si riteneva in dovere di manifestargli  le sue condoglianze tardive.
Allora una rabbia invincibile lo percorreva; ma dovendo controllarsi per non offendere la buona fede degli interlocutori:  un dolore intollerabile gli toglieva il fiato, la terra sotto i piedi sembrava tremare minandogli l’equilibrio.
Rosie era morta. Quel momento era giunto in punta di piedi, una fine annunciata da tempo. Neppure l’affetto dei figli che gli si stringevano attorno lo toccava, si sentiva stretto in un sudario gelido, indifferente a tutto, come fosse intorpidito.
Solo ghiaccio, ecco cosa aveva nel cuore; ghiaccio sulle finestre, come fuori fosse inverno; alberi secchi avrebbero potuto schiantarsi a terra, lui non se ne sarebbe accorto perché un inverno perenne ghermiva il suo cuore in una stretta senza scampo.
Cos’era diventato? Un residuo di altre stagioni passate per sempre. Come quei tronchi secchi che ancora i temporali non avevano abbattuto e resistevano, mutilati e immemori di quello che erano stati tanto tempo prima, condannati a  rammentare ai passanti  come la vita corrompa col tempo tutte le cose.
Eppure l’estate era ancora nel suo più intenso splendore. Le giornate assolate sembravano non aver fine, protese fino a sera nel tripudio dei rami carichi di frutta matura. Il frumento era già stato tagliato e i campi esausti annerivano al sole cocente del mezzogiorno.


Verso fine settembre Sam raggiunse Elanor a Sottocolle. Gli hobbit residenti non smisero per i primi giorni di fargli compagnia;  poi, man mano che la novità di quell’illustre ospite andava scemando, tutto ritornò alla quieta vita di paese.
Un pomeriggio come gli altri, Sam si inerpicò sul colle a osservare i panorami tutt’intorno.
Le colline turrite vigilavano la pianura sottostante. Il silenzio dell’altura vibrava impercettibilmente delle grida gioiose che i contadini si lanciavano l’un l’altro nelle pause dell’aratura. Un otre di acqua tiepida bastava loro per rinfrancarsi.
Com’era cambiato il paesaggio da quei tempi lontani in cui aveva percorso quei luoghi diretto alla sua missione. I prati perenni, chiazzati di azzurri fiori selvatici, erano stati sostituiti dai solchi regolari degli aratri.
Il frumento che imbiondiva ondeggiando era ormai padrone di quella vallata da molti anni.
Presto i confini di quel mare dorato avrebbero lambito le terre assegnate agli uomini, e allora a qualcuno sarebbe venuto in mente che, in fondo, sarebbe bastato poco sforzo per appropriarsi del grano stivato da quei piccoli hobbit; scaramucce avrebbero percorso i confini, e poi la guerra.
La visione lo lasciò senza fiato e con dolore sordo alla bocca dello stomaco come fosse stato aggredito da un lupo.
Le gambe gli tremavano e Sam si aggrappò al tronco ruvido di una quercia. Respirò forte per recuperare le forze; piano piano riprese sicurezza, ma sentiva impellente il bisogno di piangere: per i suoi figli, per i nipoti che aveva conosciuto e per i discendenti che sarebbero venuti con gli anni; per la gente della Contea, che in fondo non desiderava altro che trascorrere una vita tranquilla.
Fu in quel preciso istante che decise di partire dai Porti Oscuri.
Era ora anche per lui di lenire quel dolore che lo dilaniava senza posa. Già prima di lui Frodo, Bilbo e Gandalf avevano posseduto la risposta: solcare quel mare misterioso in cerca di una pace che il mondo dei viventi non riusciva a garantire che per brevi tempi. Il fato non riconosceva identità alle sue marionette, agitandole senza pietà in trame sconosciute.
Dopo cena, mentre Elanor era indaffarata a governare cucina e figli riottosi al sonno, e Fastred impegnato a dirimere una disputa urgente tra due contadini, Sam entrò nella biblioteca e prese con sé il Libro Rosso: era ora della sua ultima annotazione:   
“Ora che il mio tempo è giunto a quel traguardo oltre il quale l’esistenza perde sapore, e assomiglia più ad un accanimento alla fatica che al premio per una vita saggia e operosa, lascio anch’io il mio contributo alle cronache narrate in questo libro.
Ho aspettato molti anni, indeciso se ciò che intendevo tramandare fosse così importante da costituire lettura per le generazioni a venire.
Oggi mi rendo conto che, in fondo, ognuno degli estensori ha raccontato ciò che l’ha reso un hobbit degno di tal nome, per cui queste ultime righe le dedico alla mia amata Rosie, la cui memoria non cessa di stupirmi per la quantità d’amore donatami e della quale mi rendo conto solo ora che non ne sono più oggetto.
Arrivato ad un’età che non mi sarei mai aspettato di raggiungere, mi è ora dolorosamente evidente che era solo merito di Rosie tenermi attaccato alla vita rendendomi sopportabile il peso crescente dei giorni, l’attesa di una nuova alba alla vista della quale faticosamente alzarmi e sgranchire le mie vecchie ossa.
Tutto è finito. Gli alberi della Contea hanno rifiorito anche quest’anno con solerzia; il susseguirsi delle stagioni prosegue la sua corsa indifferente a chi ne goda i frutti.
Se il mio tempo è finito ne sono lieto; sazio di giorni mi congedo confidando in una lontana promessa che mi è stata formulata mentre in lacrime assistevo alla partenza di Frodo Baggins.
Domani sarò in viaggio per i Porti Oscuri: aspetterò il traghetto e da quella sua ondeggiante prua, fissando il giorno che lascia il posto alla notte, cederò al riposo che mi spetta.”

Quella stessa notte partì per il suo ultimo viaggio. Non salutò nessuno perché forse non ce l’avrebbe fatta a tranciare di netto la catena degli affetti. Il cavallo sembrava conoscere la strada e si avviò con calma. Sam non lo spronò, assorto a guardare le stelle.

Quando fu di fronte alle porte di Mithlond il cuore cominciò a battergli forte in petto.
Percorse il viale centrale diretto ai moli senza che nessuno gli rivolgesse la parola. Adesso i dubbi cominciavano a farsi strada nella sua mente: “Forse ho peccato di presunzione, non ci sarà nessuno ad aspettarmi.” si ripeteva guardandosi attorno. In cuor suo sperava di sbagliarsi, non aveva messo in conto il fallimento dei suoi propositi.
Raggiunse il molo sulla sponda meridionale del fiume Lhun.
Le barche ormeggiate sembravano in attesa di viaggiatori. Quale di queste era il suo traghetto? Sam scrutò attorno a sé mentre il tramonto spegneva lentamente i riflessi dell’acqua.
Ad un certo punto una figura alta, magra e apparentemente canuta scesa sulla banchina, si volse verso la sua direzione e fece un piccolo inchino.
A Sam si aprì il cuore di gioia nel riconoscere Cìrdan il Traghettatore; gli si avvicinò pieno di rispetto. Cìrdan lo invitò con gesto ampio a salire a bordo di una piccola barca hobbit.
Sam obbedì senza profferire parola, esitò solo un attimo, quand’era ancora a metà della passerella: c’era forse nell’aria un’eco di lievi note intonate con grazia elfica? Sam si voltò in preda al batticuore, attese che un refolo gentile gli conducesse un invito, un sussurro. Infine, sorrise al pensiero dell’ultimo scherzo che la sua mente aveva voluto giocargli: “Samwise Gamgee, sei proprio un vecchio rimbambito.” mormorò tra sé.
Così quando prese posto a bordo, seduto a prua col viso intento ad ammirare il tramonto del sole in un cielo sparso di violetto non ci fu nessuna mano a trattenerlo.