Il premio della colpa

24.02.2015 21:47

Con la collaborazione di Massimo Paolo Poncetta

 

Guardatelo adesso, signore, signori, guardatelo com'è ora perché così non lo rivedrete mai più. Si chiama Fabio Concetto Di Giovanni, è uno scrittore. Lui si definisce scriba, come gli studiosi del tempo degli antichi egizi, che erano così colti da essere unici ed avere una posizione di potere immensa. Scriba anche perché fa fatica a definirsi 'scrittore', ma è tutta falsa modestia. Se sapeste, invece, quanto si considera ineguagliabile e per quel suo strano lavoro di funambolo della fantasia quanto poco aspetterebbe a passare persino sopra il vostro cadavere.
Sì, quello che venerate come un angioletto è un diavolo dei peggiori. Io sono uno di quelli... dirò 'loro', per ora. Sono uno di loro e ve lo dico per esperienza; ma mi vendicherò. In questo momento state leggendo un'istantanea dell'attimo in cui incomincia la nostra vendetta.
*​
Fabio si alzava la mattina con in mente il pensiero di lei, magari non sempre un pensiero ripetibile a parole ed a quel pensiero si sovrapponeva come una colonna sonora in fase di missaggio un imperativo ben più pratico: "Devi andare a lavorare". Non è sempre bellissimo avere di queste rivelazioni mentre ancora nella mente aveva l'abbraccio di quella che era stata la sua donna ed il profumo di lei e... ma queste, in fondo, sono cose un po' troppo personali. L'imperativo di andare al lavoro lo coglieva mentre prendeva il caffè, fumava una sigaretta e si dirigeva nel bagno per lavarsi. Con la piccola differenza che quella mattina, nello specchio, non era il solo a riflettersi. Si guardò una prima volta ed era attorniato dalle ombre. Chiuse gli occhi ('sono ancora bello rincoglionito, oggi, eh?') e li riaprì.
Loro erano ancora lì, alle sue spalle; e lui riconobbe alcune antiche conoscenze.
Sulle prime non credette molto ai suoi occhi, cercò persino di ripulire lo specchio (quella vecchia scema che viene per le pulizie la devo prendere a calci, guarda che schifezza), ma le ombre non se ne erano affatto andate, anzi, sembravano esserne arrivate altre e componevano una piccola folla dietro di lui. Erano tutte lì a guardarlo, come sfocati extraterrestri precipitati da chissà quale strano pianeta, ognuna che cercava di sporgere la testa più dell'altra per poterlo osservare.
Fabio credette che gli venisse un infarto seduta stante. Più guardava e più metteva a fuoco le sfocate creature e più veniva preso da un senso di curiosità mista a terrore, sì, terrore, perché Fabio era uno scrittore di thriller e nelle figure alle sue spalle stava riconoscendo i personaggi che la sua stessa fantasia aveva partorito. Incuriosito li guardava, si allungava verso lo specchio come a volerci entrare per poter guardare meglio, era come se i suoi pensieri si stessero affollando nello specchio. Con gli occhi spalancati come due finestre in piena estate era quasi compiaciuto di poter incontrare le sue creature. Spesso con il pensiero aveva indugiato su questo o quel personaggio per parecchio tempo ancora dopo aver finito il romanzo, quasi a desiderare di poterlo portare in vita. Aveva i suoi preferiti: MacLean per esempio, lo scozzese perseguitato dai rimorsi a cui aveva fatto saltare le cervella dopo avergli fatto credere di essersi salvato. Eccolo lì in prima fila. Fabio sorrise. Era un po' più grassottello e più basso di come lo aveva immaginato, ma pareva avere l'aria del povero idiota che con tanta maestria aveva dipinto per lui. E più in là Patrizio, il parroco sezionato da uno dei ragazzi della comunità che aveva costituito. E Amanda, la bella ballerina di tango che aveva fatto suicidare dopo averle rovinato la vita. E altri ancora. Ma con quale fine si stavano palesando a lui? Un piccolo brivido lo pervase.
Guardò oltre le immagini, quei visi che spuntavano uno dietro l'altro, mostrando immediatamente il loro nome. La finestra che dava sul cortile, da cui proveniva la luce del giorno, nello specchio pareva l'antro dell'inferno, nero e fumoso. Era l'inizio della pazzia, ne era certo, il manifestarsi di un problema al cervello che non si sarebbe stupito fosse stato un tumore. Ma era anche affascinante poter osservare così da vicino i suoi personaggi, povere anime dannate che le sue mani avevano plasmato le vite e fatto finire tragicamente. Ecco, quello che più di tutti stava aspettando, il Commissario Gasparri, il protagonista di una serie di libri fortunati, un povero alcolizzato dall'acume sviluppato, fatto morire tragicamente perchè ormai stanco di lui.
-Sei un bastardo!- sentì esclamare da quel viso, diventato improvvisamente enorme alle sue spalle. -Una feccia dell'umanità, un perdente...-
Si girò, pronto a colpirlo, ma si trovò davanti la finestra luminosa. Nessuna ombra, nessun personaggio, tanto meno Gasparri. Corse in cucina e spalancò il mobile dei liquori; era sicuro di non aver bevuto la sera prima, ma ultimamente alcune discrepanze lo stavano facendo dubitare delle proprie facoltà mentali. Tutto in ordine, le bottiglie allineate e una leggera patina di polvere, a garanzia. Gli stava succedendo qualcosa, ne era certo, le colpe accumulate negli anni alimentavano il senso di disagio crescente. Andò in camera, davanti al grande specchio e osservò se stesso, aspettando che le ombre comparissero, ma nulla. -Vieni da me, ti farò impazzire...- abbassò rapido lo sguardo verso il riflesso del letto e vide sopra Luana, il collo sgozzato da una ferita da cui fuoriusciva sangue scuro. Era nuda, bellissima e morta.
Luana, bellissimo cadavere, uno splendido buco nero. Il suo viso un misto tra quella che un tempo era stata la sua donna, che poi l'aveva piantato in asso per il suo mestiere incostante, a detta di lei. -Non si vive di inchiostro e carta- diceva, e per quanto tra di loro ci fosse del gran sesso e una buona dose di affetto, era tutto finito lì. L'altra parte della faccia, in alcuni dettagli, ricordava invece uno dei suoi personaggi, l'ennesimo che a causa della sua natura violenta, per quanto riguarda la penna, aveva fatto una brutta fine.L'aveva chiamata Lanua, anagrammando il nome della sua donna. Mezza donna, mezzo cadavere. L'eleganza della sua ex ragazza, l'aggressività del personaggio omicida-suicida. I capelli lisci come corde spiegate di una chitarra, le cadono sul volto, danno visione soltanto di alcuni dettagli più o meno importanti. Fabio salta rapido sul letto, come per acciuffare almeno una di quelle prove, per disdegnare il fatto che non stesse sul serio impazzendo. Nulla di fatto, il suo salto, solo il lancio di un folle che aggrappa il piumone. Le lenzuola fresche e bianche però hanno dei segni imprescindibili. Gocce di sangue, fresche, profonde. Fabio si volta di scatto ad osservare nuovamente lo specchio. La sua immagine appare più distorta di prima. Ha il cuore che gli batte all'impazzata. La paura di chi ha personaggi con tendenze omicida dentro casa, e l'eccitazione di incontrarli sul serio. Gran bell'esperienza per uno scrittore. Stringe gli occhi con le dita, come a non guardare più nulla, ma voltato di spalle, si accorse di un ticchettio frenetico. Le gocce di sangue, dal collo sgozzato, avevano ripreso a colare. -Non ti voltare, guarda soltanto il mio riflesso allo specchio, devo solo dirti una cosa, se siamo qui è perchè vogliamo che tu faccia delle cose per noi, se non altro per il fatto che tu ci hai messo al mondo, è un dovere non credi?- sussurra piano Lanua.
- Ma come ti permetti? - sbottò Fabio guardandola allo specchio - Voi non avete il diritto di accampare pretese di alcun tipo. Chi credete di essere, eh? Adesso ve renderete conto, di cosa vi posso fare quando mi incazzo... -
- L'abbiamo già visto - commentò tristemente un uomo dietro di lui.
Fabio si voltò di scatto, istintivamente, ma l'unica cosa che poté vedere fu un'ombra sul muro che se ne andava con passo lento.
- Ci siamo capiti, direi - commentò Lanua. Si stava sistemando i capelli e...
...oh, signori della corte, come era bella quando faceva così.
Aveva un fisico splendido e più che le sue gambe chilometriche, Fabio non potè fare a meno di essere attratto... Si sentì un porco e per la prima volta da un bel pezzo cominciò a sentire un certo dispiacere per lei. Per loro.
- Lo vedi? Forse non l'hai notato bene, ma chi ti ha risposto è Snadro Tramonti, il tuo alter ego di tante storie. Sei riuscito a far buttare dalla finestra anche lui, sarai scemo? Va bene, il problema è che noi siamo te. Quindi non puoi fare a meno di lavorare per noi, se così vogliamo dire -​
- E se io mi rifiutassi? - chiese lui con l'aria ancora più preoccupata e triste, quasi vinto.
La stanza era deserta. Stava parlando da solo davanti allo specchio, in quel momento ('Le 7 e 50, cavolo, rischio di far tardi') Un sospiro di sollievo, prima di sentire le voci attorno a lui, rimbombare sulle pareti della stanza.
- Sta a te, combattere contro di te - gli rispose la voce di Snadro ridendo.
Fabio chiuse la porta della camera sbattendo l'anta così forte da far tremare le mura.
Ne aveva abbastanza. Voleva chiudere là dentro tutta quella follia, togliersela dalla mente e cercare anche di dimenticarla per sempre. 'Un incidente', pensava. 'Lo accantonerò come un incidente di percorso. Il troppo fantasticare mi sta rendendo paranoico. Una vacanza! Ecco quello che ci vuole. Mi prendo una bella settimana di vacanza e non se ne parla più. Anzi, un mese!'
Così convinto uscì di casa più velocemente che poté, canticchiando ad alta voce per evitare in tutti i modi di sentire altre voci provenire da quella maledetta camera. Ma non sentì più niente. Appena fu in strada tirò un grosso sospiro di sollievo. Il traffico, le persone indaffarate che non lo degnavano di uno sguardo, l'aria mattutina già piena del dolce smog. Sì, dolce, nel senso che era giusto che ci fosse così come era giusto che gli specchi non parlavano.
Si incamminò con ritrovata tranquillità, e, come tutte le mattine si diresse al suo solito bar.
"Fabio, sei in ritardo stamattina!" lo salutò subito Beppe il barista.
"Lo so lo so", rispose Fabio. "Ho avuto un contrattempo."
"Sei rimasto a letto?"
"In un certo senso sì. Diciamo che ho sognato."
"Ecco il solito caffè", disse Beppe servendolo.
"Il solito caffè!", si insinuò una voce. "Ma non vedi quanto sei meschino?"
Fabio si girò di scatto. C'era un'ombra nello specchio appeso al muro che non corrispondeva con nulla nel locale. "Perché non ti uccidi?"
L'accento scozzese poteva riconoscerlo ovunque: MacLean, l'aveva creato lui quello strano personaggio che con la testa dilaniata da un colpo di revolver, pareva fissarlo. Tremando per la paura si allontanò dal bancone.
" Ma le vedi anche tu le ombre Beppe"?
Il barista gli offrì un altro espresso pensando che l'uomo quella mattina avesse esagerato con l'alcool.
" Brutta giornata eh"?
Fabio cercò di distogliere lo sguardo dalla parete, ma pareva che con il riflesso del sole le ombre si allungassero fino a raggiungerlo. Una risata inquietante gli perforò le orecchie.
" Non puoi fuggire da te stesso, siamo le tue ombre, la tua parte nascosta, che tu lo voglia o no siamo una parte di te".
L'uomo uscì come una furia dal bar, iniziò a correre lungo la strada e per poco non si fece investire da una macchina che frenò a pochi metri da lui. Il sole rifletteva piccoli raggi sul vetro della berlina, un'ombra terrificante si materializzò allungando la mano scura verso il corpo pietrificato di Fabio.
" Senti brutto stronzo, tu ci hai uccisi senza pietà cosa credevi di farla franca"?.
" Dovrai passare tutto quello che hai fatto passare a noi".
"Solo così troveremo pace, solo così saremo di nuovo una sola persona".
Un grande frastuono, accompagnato da una serie di epiteti al suo indirizzo, lo riportò alla realtà. Si rese conto di essere ancora fermo davanti alla macchina il cui autista continuava, inviperito, a suonare il clacson e a inveire contro di lui. A fatica, bianco come un cencio, si trascinò sul marciapiede più vicino, biascicando parole di scusa. "Vogliono vendicarsi" pensò, mentre realizzava di stare tremando come una foglia "Vogliono farmi impazzire. O addirittura uccidermi!" "Signore, si sente male?" disse, gentilmente, una voce femminile. Fabio guardò a chi appartenesse, era una ragazza carina, vestita sobriamente, all'apparenza perbene "No, no, grazie... non si preoccupi..." riuscì a rispondere "E' bianco come un lenzuolo. Si vede che non sta bene. L'accompagno a casa!" disse prendendolo per un braccio. Fabio si fece portare come un cagnolino al guinzaglio, riflettendo sul fatto che quella ragazza lo stava aiutando, pur essendo per lei un perfetto sconosciuto. In fondo l'umanità non era poi così cattiva come l'aveva descritta nei suoi libri. C'era ancora speranza! Dopo tutte le cose brutte che gli erano capitate, questa inaspettata "gentilezza" lo stava confortando. Era un po' a disagio, però. Dopo quelle poche parole, la premurosa sconosciuta era rimasta in assoluto silenzio e lui, ancora tremendamente scosso, non era riuscito a proferire neanche una sillaba. Sollevò gli occhi da terra, dove li aveva tenuti per tutto il tempo e, con sua grande sorpresa, si accorse di essere nei pressi del suo quartiere. "Non le ho detto dove abito. Come ha fatto a capirlo?" Voltò la testa verso di lei e rimase paralizzato dal terrore. La ragazza si era trasformata. Indossava un bellissimo abito rosso, con un vertiginoso spacco che lasciava intravedere le gambe stupende. I capelli nerissimi erano acconciati in un sofisticato chignon. Ai piedi, inconfondibili scarpe da ballo. Tango. Amanda.
-No... non è possibile... io impazzisco!- si alzò di scatto, correndo all'impazzata verso il portone di casa sua, ma più correva più il palazzo si allontanava. Risate alle sue spalle, prima una, poi tante, tutte insieme, un rimbombo di suoni che lo fece inciampare e cadere a terra. Il contatto non arrivò, si sentì sprofondare, risucchiato in un enorme voragine rivestita di specchi. Facce dal sogghigno malefico lo accompagnavano nella caduta, mentre lui urlava all'impazzata, sino a quando non sentì il duro contatto del terreno.
-Ehi, che ti succede? Presto, chiamate il 118!- la voce di Beppe lo raggiunse come un salvagente, risucchiandolo dal profondo buco in cui si trovava.
-Che è successo?- riuscì solo a dire, osservando la faccia del barista, preoccupata.
-Ho visto i tuoi occhi girare verso l'alto, poi hai rantolato e sei caduto a terra dallo sgabello. Come ti senti? Non ti preoccupare, ho chiamato l'ambulanza.-
Chiuse gli occhi annuendo; forse in ospedale lo avrebbero visitato e scoperto il disturbo. Aveva solo voglia di uscire dall'incubo, ritrovare se stesso e il mondo con le cose giuste al posto giusto.
L'ambulanza arrivò a sirene spiegate, rumore di barella e persone intorno a lui.
-Ha perso i sensi?- chiese una donna.
-Solo un attimo- rispose Beppe.
-Bene, mi sente?- alzò la mano e fece ok. -Ora stia calmo che la portiamo al Pronto Soccorso.-
Lo caricarono e il mezzo partì. -Ora puoi aprire gli occhi bastardo!- lo fece, impaurito. Attorno a lui Amanda, Snadro e Launa, vestiti da militi lo stavano fissando.
Gli occhi di Fabio si spalancarono diventando l'immagine del terrore più profondo. Fece per urlare, ma nessun suono gli uscì dalle labbra, nella sua mente solo un pensiero anche se assurdo: fuggire.
Fece per alzarsi dalla barella, ma Snadro gli diede uno spintone che lo fece ricadere all'indietro.
- Cosa credi di fare, idiota? - gli ringhiò a denti stretti - sei nelle nostre mani, non lo hai ancora capito? Tu ci hai creati, uccisi e poi evocati. Ora siamo qui e ti troveremo in qualsiasi posto tu vada a nasconderti. Siamo nella tua mente, scorriamo nelle tue vene, siamo parte di te. Tutti. -
Fabio ascoltava come in limbo. Le parole gli arrivavano da lontano. Si guardava intorno e intanto sentiva come sottofondo lontano la voce maschile che gli parlava in tono feroce.
Si voltò indietro a guardare il guidatore e un altro brivido lo scosse: era MacLean e aveva la faccia tutta dilaniata. A quel punto Fabio fu assalito da brividi sempre più grossi fino a che arrivò a battere i denti talmente forte da non sentire più nemmeno i suoi pensieri. Saltava sulla barella come se fosse stato preso da un attacco epilettico e sentì due morse artigliargli i polsi. Nonostante ciò continuava a dimenarsi come se tutti i suoi muscoli, nessuno escluso, si stessero contraendo contemporaneamente. Iniziò a sentire dolori ovunque.
- Hey, ragazzi, cosa succede? Se non stiamo attenti questo imbecille ci muore qui - disse Launa - come facciamo ad usarlo se ci muore? - Fu in quel momento che Snadro, sentite le parole di Launa, diede a Fabio due ceffoni che gli fecero sbattere violentemente la testa contro la barella.
Fabio non capì neppure cosa gli stava succedendo. Gli si annebbiò la vista, tutto divenne nero ed immediatamente dopo perse i sensi
A Fabio gli ospedali facevano tornare in mente i tanti parenti ed amici finiti lì. Malattie inguaribili, in alcuni casi, o semplici interventi di routine, che i medici indicavano come 'di routine', ma lo erano solo per loro, accidenti. Personalmente, per quelle poche volte che l'ospedale era servito a lui, la sua sensazione di non poterne uscire vivo si era accentuata sempre più, ogni volta.
Si era risvegliato in un letto in una camera bianca e... oh, fin troppo illuminata, per lui... ed aveva la sensazione netta di aver incontrato persone strane che gli volevano fare del male. Se ben ricordava, le allucinazioni che aveva avuto non lasciavano presagire niente di buono. Si alzò in piedi un po' dolorante, ma tutto sommato si poteva muovere. Andò in bagno, la curiosità di guardarsi allo specchio per vedere chi c'era non la sapeva spiegare ma era forte in lui.​ Il bagno era in un angolo buio della stanza. Fece per accendere la luce, premette l'interruttore, ma non successe niente. Buio.
Questo era sempre stato uno dei suoi incubi ricorrenti.
("Vivo in un incubo, adesso?")
Il neon lampeggiò, diede strani bagliori brevi e schizofrenici e nella penombra stroboscopica, lui li vide. Di nuovo.
La luce rimase tenue e verde, l'ambiente scuro ed inquietante, lo specchio abbagliante. Lui era lì, forse un po' malconcio, ma ancora vivo ed intero, ma non era solo.
Lanua gli si avvicinò, lo accarezzò e lui sentì tutto il viscido del suo tocco lascivo e malvagio.
- Te l'ho detto - gli sussurrò dolcemente - non puoi liberarti di noi -
"Voi non siete reali", sussurrò Fabio più a sé stesso che alle ombre che lo circondavano.
"Questo secondo te non è reale?" Launa si scoprì un seno, prese la mano di Fabio, e ce la mise sopra.
Lui sussultò. Quel seno era morbido e caldo, ma invece di dargli piacere, lo fece inorridire. Ritrasse la mano con violenza. "Voi non siete reali", ripeté con gli occhi sbarrati.
"Sei andato troppo oltre", intervenne Snadro. "Ci hai usati a tuo piacimento, e ci hai fatto fare una brutta fine, a tutti noi."
"Sì", confermò Fabio. "Vi ho usati. Ma io posso farlo. Sono io che vi ho creati, e io posso anche distruggervi!"
"E' qui che ti sbagli", continuò Snadro. "Tu sei quello che sei solo grazie a noi, e senza di noi tu non puoi vivere, non più. Uccidendo tutti noi, hai decretato la tua condanna a morte."
"No!" gridò Fabio. "Io posso fare ciò che voglio di voi perché voi esistete solo nella mia fantasia!" Così dicendo sferrò un tremendo pugno allo specchio che rifletteva l'immagine dei suoi personaggi, mandandolo in frantumi."
"Ah ah ah!" rise Snadro. "Credi che sia così semplice liberarti di noi?"
"Via! Via!" urlava Fabio. "Andate via!" Poi sentì le mani viscide, e le ombre si colorarono di rosso, e finalmente scomparvero, insieme a lui. L'infermiera entrò in bagno troppo tardi. Fabio era a terra con le vene tagliate e senza vita. Schizofrenia bipolare fu la diagnosi del professore dell'ospedale. "Strano però", commentò il commissario che esaminò il caso, "gli avevano dato dei calmanti sufficienti a stendere un elefante. Come avrà fatto ad alzarsi?"