IL BOSCO
12.06.2015 19:15
E la sera arrivò senza fare rumore. Il sole aveva cominciato lentamente a scendere dietro la terra lasciando, dietro di sé, un manto scuro a ricoprire ogni cosa.
Gli ultimi raggi di sole indugiavano sugli alberi di quell’immenso bosco adagiato sul fianco della montagna. Tutto assunse un colore minaccioso. Tutto si trasformò in giganteschi esseri dalle braccia intrecciate come serpenti striscianti che seguivano il suo passo sul sentiero. Quello stesso sentiero che dapprima punteggiato di cespugli colorati e funghi profumati, divenne una massa informe ombrosa. Il crepuscolo incombeva ed Emma cominciò a sentire su di sé la minaccia della notte. Doveva rientrare. Doveva riprendere presto la strada verso casa. L’inquietudine del buio l’assalì. Aveva perso ogni punto di riferimento. Il cuore accelerò i suoi battiti, gli occhi sgranati, smarriti, cercavano di riconoscere il passo lasciato la mattina. Ma il gioco di luci ed ombre sembrava prendersi gioco di lei minacciando la fiducia nel cammino. Nulla era rimasto dei contorni familiari, dell’abbraccio profumato che l’aveva rigenerata. Tutto era angoscia, paura. Fu un susseguirsi confuso di passi: ora accelerati, ora lenti. Il fiato sempre più corto, la salivazione azzerata e quel senso di soffocamento che non la lasciava pensare. All’improvviso il bubulare di un gufo la fece trasalire. Atterrita si fermò. “Non riuscirò a raggiungere il paese” pensò, “non ce la farò!”.
Come colonne maestose, gli alberi si strinsero attorno a lei. Cadde in ginocchio, si rannicchiò su se stessa e pianse. La sera ormai era vicina e tutto le sembrò impossibile. Il crepuscolo l’aveva tradita e la paura l’aveva vinta.
E la sera arrivò senza fare rumore. Il sole aveva cominciato lentamente a scendere dietro la terra lasciando, dietro di sé, un manto scuro a ricoprire ogni cosa.
Gli ultimi raggi di sole indugiavano sugli alberi di quell’immenso bosco adagiato sul fianco della montagna. Tutto assunse un colore minaccioso. Tutto si trasformò in giganteschi esseri dalle braccia intrecciate come serpenti striscianti che seguivano il suo passo sul sentiero. Quello stesso sentiero che dapprima punteggiato di cespugli colorati e funghi profumati, divenne una massa informe ombrosa. Il crepuscolo incombeva ed Emma cominciò a sentire su di sé la minaccia della notte. Doveva rientrare. Doveva riprendere presto la strada verso casa. L’inquietudine del buio l’assalì. Aveva perso ogni punto di riferimento. Il cuore accelerò i suoi battiti, gli occhi sgranati, smarriti, cercavano di riconoscere il passo lasciato la mattina. Ma il gioco di luci ed ombre sembrava prendersi gioco di lei minacciando la fiducia nel cammino. Nulla era rimasto dei contorni familiari, dell’abbraccio profumato che l’aveva rigenerata. Tutto era angoscia, paura. Fu un susseguirsi confuso di passi: ora accelerati, ora lenti. Il fiato sempre più corto, la salivazione azzerata e quel senso di soffocamento che non la lasciava pensare. All’improvviso il bubulare di un gufo la fece trasalire. Atterrita si fermò. “Non riuscirò a raggiungere il paese” pensò, “non ce la farò!”.
Come colonne maestose, gli alberi si strinsero attorno a lei. Cadde in ginocchio, si rannicchiò su se stessa e pianse. La sera ormai era vicina e tutto le sembrò impossibile. Il crepuscolo l’aveva tradita e la paura l’aveva vinta.
"Perché piangi, fanciulla?" le chiese un albero ed Emma trasalì.
"Non aver paura, fanciulla, ché non desidero recarti danno. Su, dimmi perché sei così triste."
Emma si guardò attorno ma non riuscì a distinguere da dove giungessero quelle parole ma in qualche strano modo queste la tranquillizzavano, facendola sentire come se non dovesse temere alcunché, nella notte buia.
"Mi sono attardata nel bosco, mio signore, e la notte mi ha colto quaggiù anziché nella casa di mio padre ed ora ho paura di non saper ritrovare la strada e temo anche che mio padre si arrabbierà." disse Emma, trattenendo a stento i singhiozzi.
"Oh, fanciulla, la strada è semplice, te la posso indicare anche ora. Ma dimmi, perché temi tanto la reazione di tuo padre? Dovrebbe essere più che felice di riaverti a casa, sana e salva." rispose la voce: calda, profonda e graffiante, sembrava circondarla, sgorgando da ogni ombra.
"Lei non lo conosce, mio signore: egli detesta quando gli si disobbedisce, non lo tollera e s'infuria." Emma aveva smesso di versar lacrime ma i suoi occhi erano ancora gonfi e umidi. Sollevò la testa, cercando di scorgere il suo misterioso interlocutore ma la notte era ormai calata e oramai non riusciva a vedere altro che le tenebre.
"Credo tu sia ingiusta verso il cuore di tuo padre." disse la voce. Poi qualcosa accadde: un movimento nel buio ed Emma vide: un uomo alto, vestito di un sobrio soprabito scuro, un cappello a cilindro sul capo ed un raffinato bastone da passeggio.
"Vieni fanciulla, vediamo quanto ti ama tuo padre." Nel prendere la mano che l'uomo gli porgeva, Emma fu confortata dal suo sorriso, bianco e perfetto. Non badò, invece, ai suoi occhi.
Raggiunsero il confine che separava il bosco dalla radura, la attraversarono e giunsero al fiume. La luna creava disegni screziati sulla superficie che scorreva a valle saltando tra le rocce e trascinando con se steli d'erba. La mano dell'uomo stringeva la sua, in modo forte ma delicato, quasi fosse da sempre in debito con lui. Una sensazione strana quella, riferita a qualcuno che non aveva mai visto in vita sua. Non parlarono, lui un passo innanzi e lei tranquillizzata dietro.
L'uomo, sulla riva del fiume, si fermò e volse lo sguardo verso l'alto.
-Questo è il punto- disse, la voce ferma e profonda. Emma alzò il viso in cerca di qualcosa, ma le ritornarono solo agli occhi i luccichii delle stelle. -Tra un po' sarà qui.-
Si allontanò di qualche passo, col bastone frugò tra l'erba, ma il buio non fece capire alla ragazza cosa stesse cercando.
-Chi aspettiamo?- chiese timorosa.
-Tuo nonno Alberto- ad Emma si accapponò la pelle. Suo nonno, il padre di suo padre, era morto da più di un anno. Come era possibile? L'istinto fu quello di fuggire, ma immediatamente qualcosa la costrinse a rimanere lì.
-Non devi avere paura, anzi devi essere onorata di ricevere questo dono. Non tutti possono raccontare una storia come la tua, solo pochi eletti. E tu, Emma, sei una di questi, colei che riceverà "il racconto".-
Sembrava di vivere in un sogno; forse si trovava ancora nel bosco, svenuta a terra. Di sicuro non in quel luogo, insieme a quello strano individuo. Smise di cercare e le si avvicinò. Alzò la testa quel tanto che permise ad Emma di vedere gli occhi. Un urlo lacerò il silenzio della notte.
Erano due occhi nodosi. Due occhi color castagna, occhi di corteccia. Quella figura semiumana era la reincarnazione pratica di un albero, lo stesso dove poco prima Emma aveva adagiato il suo corpo cadente. Le braccia che poco prima la sostenevano nel buio della notte, divennero carta pesta, le vene verdastre sparirono nel buio, fino a confondersi con il legno di due rami. Il corpo lungo e longilineo divenne il busto di un acero. Nulla di umano rimase in quel corpo vuoto, persino la voce divenne l'eco tenebroso delle foglie che si sfiorano nervose. Emma provò a rialzarsi, ma le radici di quell'albero le si allacciarono alle caviglie, come due funi roventi. Bruciavano a contatto con la pelle, e maggiore vi era resistenza, maggiore era il dolore. Emma si abbandonò totalmente a quella presa, gli occhi le bruciavano come a voler esplodere. Delle strane creature iniziarono nuovamente a gracchiare, e il silenzio fu spezzato definitivamente dall'arrivo di qualcuno. Passi, passi, passi. Passi veloci, poi lenti, poi furtivi. Passi di chi sembra scappare, passi di chi ha fretta di arrivare. I passi pesanti di chi ha un peso sulle spalle, e poi leggeri di chi danza nell'aria. Emma si coprì gli occhi come a non voler guardare, e quando i passi sembrarono cessare, le radici strette alle caviglie pulsarono più forte, fino a scorticare la carne.
-Emma sono il nonno, non aver paura, scosta il braccio, da brava.- disse la voce di un uomo
Emma scostò il braccio, poi la mano, poi la ciocca di capelli. Intravide per davvero i lineamenti del suo nonno ormai perduto. Ma gli occhi, non erano più gli stessi. Due occhi li riconosci sempre, anche quando vanno via, o quando non li guardi per molto. Anche stavolta erano un qualcosa tutt'altro che umano. Le pozze azzurre del suo nonno, erano due macchie incrostate. Nelle pupille delle vene rosse, vene impazzite di chi sta per gridare.
"Non aver paura, fanciulla, ché non desidero recarti danno. Su, dimmi perché sei così triste."
Emma si guardò attorno ma non riuscì a distinguere da dove giungessero quelle parole ma in qualche strano modo queste la tranquillizzavano, facendola sentire come se non dovesse temere alcunché, nella notte buia.
"Mi sono attardata nel bosco, mio signore, e la notte mi ha colto quaggiù anziché nella casa di mio padre ed ora ho paura di non saper ritrovare la strada e temo anche che mio padre si arrabbierà." disse Emma, trattenendo a stento i singhiozzi.
"Oh, fanciulla, la strada è semplice, te la posso indicare anche ora. Ma dimmi, perché temi tanto la reazione di tuo padre? Dovrebbe essere più che felice di riaverti a casa, sana e salva." rispose la voce: calda, profonda e graffiante, sembrava circondarla, sgorgando da ogni ombra.
"Lei non lo conosce, mio signore: egli detesta quando gli si disobbedisce, non lo tollera e s'infuria." Emma aveva smesso di versar lacrime ma i suoi occhi erano ancora gonfi e umidi. Sollevò la testa, cercando di scorgere il suo misterioso interlocutore ma la notte era ormai calata e oramai non riusciva a vedere altro che le tenebre.
"Credo tu sia ingiusta verso il cuore di tuo padre." disse la voce. Poi qualcosa accadde: un movimento nel buio ed Emma vide: un uomo alto, vestito di un sobrio soprabito scuro, un cappello a cilindro sul capo ed un raffinato bastone da passeggio.
"Vieni fanciulla, vediamo quanto ti ama tuo padre." Nel prendere la mano che l'uomo gli porgeva, Emma fu confortata dal suo sorriso, bianco e perfetto. Non badò, invece, ai suoi occhi.
Raggiunsero il confine che separava il bosco dalla radura, la attraversarono e giunsero al fiume. La luna creava disegni screziati sulla superficie che scorreva a valle saltando tra le rocce e trascinando con se steli d'erba. La mano dell'uomo stringeva la sua, in modo forte ma delicato, quasi fosse da sempre in debito con lui. Una sensazione strana quella, riferita a qualcuno che non aveva mai visto in vita sua. Non parlarono, lui un passo innanzi e lei tranquillizzata dietro.
L'uomo, sulla riva del fiume, si fermò e volse lo sguardo verso l'alto.
-Questo è il punto- disse, la voce ferma e profonda. Emma alzò il viso in cerca di qualcosa, ma le ritornarono solo agli occhi i luccichii delle stelle. -Tra un po' sarà qui.-
Si allontanò di qualche passo, col bastone frugò tra l'erba, ma il buio non fece capire alla ragazza cosa stesse cercando.
-Chi aspettiamo?- chiese timorosa.
-Tuo nonno Alberto- ad Emma si accapponò la pelle. Suo nonno, il padre di suo padre, era morto da più di un anno. Come era possibile? L'istinto fu quello di fuggire, ma immediatamente qualcosa la costrinse a rimanere lì.
-Non devi avere paura, anzi devi essere onorata di ricevere questo dono. Non tutti possono raccontare una storia come la tua, solo pochi eletti. E tu, Emma, sei una di questi, colei che riceverà "il racconto".-
Sembrava di vivere in un sogno; forse si trovava ancora nel bosco, svenuta a terra. Di sicuro non in quel luogo, insieme a quello strano individuo. Smise di cercare e le si avvicinò. Alzò la testa quel tanto che permise ad Emma di vedere gli occhi. Un urlo lacerò il silenzio della notte.
Erano due occhi nodosi. Due occhi color castagna, occhi di corteccia. Quella figura semiumana era la reincarnazione pratica di un albero, lo stesso dove poco prima Emma aveva adagiato il suo corpo cadente. Le braccia che poco prima la sostenevano nel buio della notte, divennero carta pesta, le vene verdastre sparirono nel buio, fino a confondersi con il legno di due rami. Il corpo lungo e longilineo divenne il busto di un acero. Nulla di umano rimase in quel corpo vuoto, persino la voce divenne l'eco tenebroso delle foglie che si sfiorano nervose. Emma provò a rialzarsi, ma le radici di quell'albero le si allacciarono alle caviglie, come due funi roventi. Bruciavano a contatto con la pelle, e maggiore vi era resistenza, maggiore era il dolore. Emma si abbandonò totalmente a quella presa, gli occhi le bruciavano come a voler esplodere. Delle strane creature iniziarono nuovamente a gracchiare, e il silenzio fu spezzato definitivamente dall'arrivo di qualcuno. Passi, passi, passi. Passi veloci, poi lenti, poi furtivi. Passi di chi sembra scappare, passi di chi ha fretta di arrivare. I passi pesanti di chi ha un peso sulle spalle, e poi leggeri di chi danza nell'aria. Emma si coprì gli occhi come a non voler guardare, e quando i passi sembrarono cessare, le radici strette alle caviglie pulsarono più forte, fino a scorticare la carne.
-Emma sono il nonno, non aver paura, scosta il braccio, da brava.- disse la voce di un uomo
Emma scostò il braccio, poi la mano, poi la ciocca di capelli. Intravide per davvero i lineamenti del suo nonno ormai perduto. Ma gli occhi, non erano più gli stessi. Due occhi li riconosci sempre, anche quando vanno via, o quando non li guardi per molto. Anche stavolta erano un qualcosa tutt'altro che umano. Le pozze azzurre del suo nonno, erano due macchie incrostate. Nelle pupille delle vene rosse, vene impazzite di chi sta per gridare.
Stringendo gli occhi per non guardare, per cercare di ignorare l'orrore che la circondava, Emma tentò di isolarsi . Come aveva fatto a trovarsi in quella situazione? La voce distorta di quello che una volta era stato suo nonno continuava a dirle di guardarlo e di accettare “il dono”, ma lei era terrorizzata. Respirò grandi boccate d'aria, il panico era come un pugno che le forzava la gola a ogni respiro. L'aria sapeva di erba e di terriccio e la sensazione di essere sepolta viva era tangibile.
Cosa aveva fatto? Cosa aveva fatto per meritarsi questo? Poi un retrogusto aspro sulla lingua e un seme sotto i denti le fecero ricordare che aveva sbocconcellato delle more non del tutto mature proprio vicino ai confini di quella che veniva chiamata La Radura Dimenticata.
No! Come poteva essere stata tanto sciocca? La Radura era un vecchio cimitero ormai in disuso, un luogo sacro dimenticato quando il villaggio si era spostato più a sud e il bosco aveva ripreso il terreno che gli spettava di diritto. No, no, NO!!! Eppure lo aveva sempre saputo! Non si deve mangiare il cibo dei morti, neppure quello che sorge sul terreno dei morti!! - Hai chiesto il dono, Emma, accetta il dono! Accettalo, bimba mia e saprai ciò che nessuno sa!
La ragazzina aprì coraggiosamente le palpebre e fissò quelle gradi pozze celesti e vide il cosmo attraverso il volto del nonno. Annuì. Ormai era tardi per recriminare o tentare di fuggire. Le caviglie furono liberate in un istante e il dolore bruciante svanì senza lasciar traccia. Radici, rami e foresta tornarono benigni al suo passaggio mentre colui che un tempo era conosciuto come Alberto l'accompagnava sino a una piccola asperità per farla accomodare. La voce vibrava di mille corde antiche e di suoni sconosciuti a orecchio umano. Emma potè scorgere l'interno della bocca del vecchio: il cosmo infinito racchiuso nel debole involucro di carne. Si sedette e ascoltò. Ascoltò la storia della nascita del Mondo, l'amore di due stelle e l'esplosione sensuale che generò il Tutto; Seppe di Eva, che altri non era che una cometa errante e conobbe il fato di Adamo, pianeta satellite dalla triste sorte. Capì da dove provenivano le anime dei neonati e comprese la sorte che attendeva tutti dopo la dipartita terrena. - La chiamano “Morte”, ma è solo una porta che si apre, bimba mia, come questo bosco, del resto.
Emma ascoltò avidamente bevendo le parole come nettare delizioso. La paura era svanita di colpo e solo curiosità e sete di conoscenza la stimolavano. Fatti di creazione e distruzione, di pianeti così lontani il cui nome era impronunciabile per la bocca umana; esseri di pura luce o di sola anima: tutto. D'un tratto si scosse per rendersi conto che chi le stava parlando aveva cambiato forma. Una creatura di sola corteccia e senza più alcuna sembianza umana. Mille braccia nodose, nessun volto, solo un grande tronco con una cavità scura dalla quale arrivava la voce. Il nonno era svanito, c'era solo quel grande albero. L'essere si rese conto dello stupore di Emma.
- Yggdrasill, mi chiamano, ma ho molti nomi. Sono l'albero che sorregge il mondo, bimba cara, le mie radici appoggiano oltre la vita e la mia chioma arriva nei tempi futuri. Sono stato, sono e sarò quando tu sarai polvere.
La ragazza non temeva il destino di un tempo troppo in là da venire. Si accoccolò fra le grandi radici e percepì un tepore nuovo e sconosciuto. Alcuni rami le sfiorarono i capelli cullandola con amore. Il racconto continuava perché “il dono” doveva essere completo. Nel dormiveglia Emma seppe. Era una persona nuova: illuminata.
Il Sole del mattino la trovò lì, rannicchiata sull'erba. Guardò quelle piccole braccia livide dal freddo, la bocca violacea e gli occhi aperti nel vuoto. Sorrise guardando quelle piccole mani ancora macchiate delle bacche vermiglie. I capelli biondi erano scarmigliati e stopposi. Oltre l'albero c'era una piccola pozza d'acqua: vi si specchiò. I nuovi occhi erano neri come la pece e i lunghi capelli erano ali di corvo. Il volto era simile al precedente, ma più affilato, le labbra vermiglie di donna, non di bambina. Era più alta, era cresciuta. Osservò ancora la piccola Emma sacrificata al Bosco. Mentre muffe e licheni già ricoprivano le carni mortali lei si diresse verso il paese. Si toccò il grembo percependo la nuova vita dentro di lei. Sarebbe stata la Madre e avrebbe riportato gli antichi Dei sulla terra, “il dono” era stato accettato. Era vero, la chiamano “Morte”, ma è solo una porta, una porta che non poteva più essere chiusa.