Nulla è come appare

02.04.2015 08:58

Un passo dopo l'altro, sino a raggiungere il ciglio opposto della strada, in modo quasi irreale, guardandomi i piedi come se li vedessi per la prima volta. Le mani, nemmeno quelle parevano appartenermi, perchè non riconoscevo la forma, le unghie e quell'anello a forma di serpente infilato intorno al pollice. Un'auto in lontananza, ruggito di un motore che scappa via lontano, e dopo il silenzio, io e la strada, io e quella bicicletta riversa accanto ad una striscia rossa. Male alla testa, un dolore spaventoso che faceva a pugni con la volontà di rimanere sveglio. Sarebbe stato bello sdraiarsi e perdere conoscenza, venire cullato dall'oblio, cadendo in un sonno profondo senza sogni. Invece nulla, ero vigile ed attento, nonostante sapessi che qualcosa non andava, a cominciare dal mio nome, che non ricordavo. Un'amnesia, probabilmente dovuta a... cosa? Mi presi la testa tra le mani, nella speranza che quel sordo martellare si placasse, poi sentii qualcosa di vischioso impregnarmi le dita e fu panico. Sangue, le mani fradice, come se fossero affondate in un barattolo di salsa. Ed è lì che per fortuna persi conoscenza, che qualcuno dall'alto pensò di rendere sopportabile quella situazione irreale in cui mi ero buttato. Non so per quanto rimasi addormentato, ma sicuramente non fu un sonno normale e nemmeno ristoratore, perchè quando ripresi coscienza il dolore alla testa si ripresentò con tutta l'intensità che ricordavo. La prima cosa che vidi fu un soffitto, un lampadario di inizio novecento appeso ad un filo elettrico annodato intorno ad un gancio arrugginito. Poi un mobile, alcuni quadri appesi ad un muro scrostato, odore di sangue e altro che non riuscivo a riconoscere. E poi, all'improvviso, l'orrore e un grido che mi sgorgò dalle viscere a quella vista.

Un gancio appeso al soffitto poco distante sosteneva un corpo di donna. Impiccata. O almeno così mi parve, preso com'ero da quel velo alla ragione che il terrore impone alla nostra mente. Provai ad alzarmi da quello che sembrava un tavolaccio, ma il dolore mi invase il corpo come se infiniti punteruoli fossero infissi alle mie giunture. Ricaddi sulla tavola in preda a singhiozzi lamentosi. Se quello era un incubo mi sarei dovuto svegliare, prima o poi; continuai a piangere per un tempo che mi parve lunghissimo poi, lentamente, mi calmai, spossato. Con gli occhi ancora ricolmi del velo del pianto fui calamitato verso quel nuovo orrore e senza poterne fare a meno osservai quel corpo di donna. Penzolava senza alcun apparente segno di vita. Come se qualcuno l'avesse appena toccato si stava girando lentamente su sè stesso. Per un secondo ci guardammo, io e l'impiccata, poi balzai a sedere, incurante dei dolori lancinanti, come se una scossa elettrica mi avesse percorso il corpo: era viva!

Il suo corpo girava lentissimamente ed io persi il suo sguardo, ma ora osservando come potevo nella poca luce che c'era nella stanza, vidi che faceva qualche movimento con le dita. Sembrava un corpo talmente martoriato da non avere la forza di restare in vita, ma che la vita caparbiamente non voleva lasciare andare. Non capivo se i movimenti, benchè minimi, delle sue dita volessero dire qualcosa, ma quando reincrociai il suo sguardo nel momento in cui il suo povero corpo girava verso di me, vidi che spostava gli occhi leggermente di lato. Il primo istinto che mi venne,nonostante i dolori, fu quello di buttarmi verso di lei per toglierla in qualche modo da quel gancio,ma solo in quel momento mi accorsi che le mie caviglie erano incatenate al tavolaccio su cui mi trovavo. Tali erano i dolori che mi pervadevano che non mi ero reso conto di essere imprigionato. Brividi di terrore iniziarono a scuotemi il corpo. Cosa diavolo era successo? Cosa diavolo mi sarebbe successo? Il mio cervello non era capace di articolare un pensiero di senso compiuto, i miei occhi spalancati iniziarono a girare in ogni direzione riuscendo a catturare solo tanti spezzoni di immagini sensa riuscire a metterne a fuoco nemmeno una. Il dolore feroce alla testa mi martellava sempre di più e tutto quel roteare gli occhi mi aumentava ancora di più il male. Li chiusi di colpo. Quando li riaprii, li volsi piano verso la parte dove la donna sembrava aver rivolto i suoi e dopo un momento di orrore iniziai ad essere scosso da conati di vomito: accanto a me su di un altro tavolo insanguinato e tra gli escrementi giaceva un corpo scheletrico in posizione fetale, anche lui incatenato alle caviglie ed anche lui vivo. Aveva ferite da taglio aperte lungo i polpacci e profonde fin quasi alle ossa. E più in là nella penombra vidi altri tavoli,su ciascuno dei quali giacevano povere creature ridotte a larve.

Non eravamo solo noi, dentro quello stanzone. Lo capivo, lo vedevo. Certo se mi fossi riuscito a muovere di più, avrei visto bene quanti fossimo. Guardai la ragazza appesa e balbettai un:
- Che cosa...? -
Lei con gli occhi terrorizzati mi fece segno di non parlare. Sul momento, un pensiero tremendo mi passò per la testa: che chi ha detto qualcosa o fatto domande, forse, ha peggiorato la propria situazione. Forse quell'uomo magro e scarno steso nudo di fianco a me con i polpacci devastati aveva osato fare domande.
Provai ad alzare la testa per guardare, ancora e vidi il mio corpo nella penombra. Ero nudo anch'io, non solo il mio vicino. Anche la ragazza impiccata. Anche quei pochi che vedevo da lì.
(Facciamo parte di un esperimento? Che cazzo sta succedendo?​)
Quanti siamo? mi chiesi. Avevo l'idea fissa che qualcuno, o qualcuna, avesse radunato un numero preciso di persone, su un numero preciso di tavoli o appigli, per una folle ragione. Magari nove, come i facoceri. Stavo delirando, forse.
Comunque provassi a vedere la situazione, il silenzio più totale ed elettrico mi attangliava. era paura, allo stato solido, quella che sentivo nell'aria, attorno e dentro di me. Un rumore lontano colpì le mie orecchie come un tuono, in quel silenzio mortale. Erano i passi di qualcuno che si stava avvicinando.

Sentii una porta aprirsi; non la vedevo, ma era chiaramente il rumore di una porta che si aprì e si richiuse. Poi un respiro, profondo, sonoro, come se qualcuno facesse fatica a catturare l'aria per gettarsela nei polmoni... qualcuno che prima non c'era.
Qualcuno era entrato nella stanza.
Ebbi l'istinto di gridare, di chiamare aiuto, di trovare un appiglio logico che mi facesse uscire da quell'incubo. Mossi le mani e tirai le catene che mi tenevano imprigionato facendo un rumore così forte e sgradevole da farmi accapponare la pelle. Guardai la donna appesa davanti a me che prima di girare ancora lentamente mostrandomi la schiena, fece in tempo a spalancare gli occhi in risposta a quel mio gesto sconsiderato. "Sei pazzo?!" sentii sbattermi addosso i suoi pensieri. "Non farlo! Non farlo mai più!" Poi la sua faccia sparì alla mia vista, e allora, guardandola attraverso le lacrime che mi appannavano gli occhi, compresi che non era impiccata: era appesa ad un grosso gancio arrugginito che gli entrava nel corpo, squarciando la pelle all'altezza delle scapole, e che fuoriusciva poco spora, sulla nuca. Una lunga scia di sangue nero rappreso gli scendeva per tutta la schiena, si raccoglieva nell'incavo delle natiche, e poi tornava a correre giù all'interno delle cosce. Oltre non potevo vedere. Mi lasciai andare, picchiando la testa sul tavolo. Il lampadario riempì ancora il mio campo visivo. 'Che strano', pensai, sono in una casa; una vecchia casa. Cosa mi è successo? Stavo andando al lavoro, quando d'improvviso tutto era diventato irreale, e aveva preso a galleggiare... La botta alla testa! Qualcuno mi aveva colpito!
Ma i miei pensieri di razionalizzare una situazione irreale furono spazzati via quando sopra di me comparve un viso con una maschera verde sulla bocca.

Questa losca figura senza proferire parola spinse il carrello sul quale ero disteso senza particolare sforzo, dalla posizione supina cui mi trovavo era difficile carpire le sue intenzioni, ma la sua faccia si spostava da una parte all'altra della stanza in cerca di qualcosa. Capii che stava scegliendo cosa farne del mio corpo. Il suo sguardo si posò su uno dei ganci rimasti liberi. Dentro di me ripetevo: quello no, quello no ti prego. Come se un giocattolo diverso avrebbe potuto migliorare la mia condizione. L'uomo si asciugò del liquido gocciolante dalla fronte, che credevo essere sudore, ma altro non era che vero e proprio sangue. Poi scattò come un felino e trascinò la mia pseudo barrella in uno spazio angusto dello stanzone, in un angolo impolverato. Avrei voluto gridare, ma gli occhi pazzi della donna appesa mi ricordavano di non fare sciocchezze, allora tacqui. L'uomo sembrava trafficare lì vicino, il rumore era quello di una mano che fruga in un cassetto di posate, mi si avvicinò rapidamente e senza che me ne rendessi conto iniziò ad incidere varie parti del corpo con uno di quei coltellacci sottili e di precisione. Il dolore era così forte che dopo un po' smisi persino di sentir male. Il dolore è un'abitudine folle a cui prima o poi non ci fai più caso. Il mio corpo si era abbandonato ad ogni barbarie, sentivo il sangue caldissimo sgocciolarmi sulle gambe e poi cadere sul pavimento. I miei occhi deboli fanno fatica a restare aperti, balzano dal buio al niente, dal niente al buio. Poi quasi per completare una folle opera sento l'uomo accendere un attrezzo, quando me lo punta sul viso ho giusto il tempo di rendermi conto di cosa si tratti, una fiamma ossidrica. Perdo i sensi, ma quando mi riprendo dal coltellaccio posato su un tavolo accanto riesco a vedere un pezzo della mia figura. Il mio volto è un quadro disciolto.​

Se questo è quello che sono diventato, voglio morire subito, velocemente, senza scontare alcuna inutile agonia. Voglio che quel macellaio si avvicini per implorarlo di sgozzarmi. Invece una saracinesca si apre dall'altro lato dello stanzone. Un camion fa retromarcia, spegne il motore, e un gruppo di sconosciuti entra; li sento che muovono i tavolacci, aspetto il mio turno. Dopo un tempo indefinito anch'io vengo spinto nel cassone del camion, che dev'essere proprio grande, un autoarticolato, perché ci stiamo tutti. Gli sportelli si chiudono e partiamo. Le scosse della strada ci regalano sofferenze che ancora non sapevano di poter provare, ma alla fine ci fermiamo. Io sono mezzo svenuto e in fondo non mi importa di niente, ma qualcuno degli altri prova ancora ad urlare, ma i nostri custodi non reagiscono. Qualcuno mi mette una mascherina e smetto di esistere finalmente.
Invece riapro gli occhi e mi trovo disteso in un corridoio, sopra di me un soffitto pulito; il posto mi pare pulito e luminoso. Ancora non è finita. Ma perché non sono morto, perché?

Di nuovo la maschera mi si avvicinò. La potevo vedere meglio, in quella luce più forte e netta. Era una piastra di metallo verniciata di verde, una grata all'altezza degli occhi ed una più piccola vicina alla bocca. Stava fermo e mi guardava, intuii.
Di nuovo mi chiesi, con stanchezza, che cosa volesse fare di me.
"La perfezione..."
Una voce sintetica mi colpì come una scudisciata e capii che era la maschera che mi stava parlando.
"Ora siete la perfezione" rirprese "Tu e lei. Mi avevi colpito per la tua magrezza e capisco che sei la statua perfetta. Tu e lei... guardala!"
Mi voltai a guardare accanto a me la ragazza che era stata appesa ad un gancio, ora distesa nel tavolo a fianco al mio. Dal collo le spuntava una specie di collare fatto di lame, forse le erano state incise prima che io arrivassi.
"E' bellissima" continuò la voce "Siete i due esemplari perfetti per il mio museo d'arte". Tu guadagnerai una splendida maschera di metallo, ora, due armature di metallo che ti coprono le gambe e sarai il vero angelo di ferro che volevo come statua. Lei, è già bellissima così, con quei due ganci che le spuntano dalle scapole. Ti piacerebbe se le facessi due ali di acciaio? Potrete vivere sempre qui, nel mio museo, i clienti sono gentili e qui vi trattano bene"​
Mi piacerebbe un ospedale, pensai, dove mi rimettono a posto, mi curano e mi liberano, anche se non potrà mai essere come prima.
"Arrivano i clienti, mi allontano" disse la voce e corse zoppicando verso la porta.

Mi trovavo in uno stato confusionale preso da una sofferenza impossibile da descrivere a parole, dove così tanti impulsi di dolore raggiungevano il cervello da non permettermi più di capire coscientemente se ci fosse un qualche punto del mio corpo ancora intatto. Lo strazio che provavo faceva sì che tutto sembrasse ovattato ed irreale, immerso com'ero in un'agonia che mi gettava in uno stato di semi-incoscienza purtroppo non abbastanza marcato da liberarmi dalla percezione dell'atrocità di cui ero vittima. Sentii delle voci, vidi forse delle ombre, poi tutto fu nuovamente silenzio. Dopo un tempo che non potrei definire, iniziai a sentire rumore di metallo che batteva contro metallo. Istintivamente il mio corpo fu scosso da brividi di paura. I miei nervi saltavano come fossero elastici di tante fionde, non avevo il minimo controllo su di loro. Un rantolo uscì involontario dalla mia gola e il rumore per un attimo smise. Voglio morire. Perchè non muoio? Cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Sono nel nulla più assoluto, nessuna speranza di uscirne. Scuotevo la testa da destra a sinistra nella straziante consapevolezza dell'impotenza. Non sentii avvicinarsi la maschera, ebbi solo la sensazione di un pizzicore sul braccio e capii che mi veniva iniettato qualcosa nella vena. Stavo perdendo coscienza. Forse morivo?
Mi risvegliai in posizione eretta, ma non ero io che stavo in piedi, nè i miei piedi toccavano terra. I miei occhi ora non vedevano più lo spazio attorno, solo una grata, sul viso qualcosa di freddo così come sulle gambe e sulle braccia. L'armatura. L'armatura di cui parlava la maschera. Realizzai di essere appeso per le braccia a due uncini e davanti a me vidi la ragazza che era con me ugulamente appesa di fronte a me con due enormi ali di metallo conficcate nella schiena.

Cercai di guadarmi intorno. Un gruppo ristretto di persone, ci stava osservando come fossimo davvero degli oggetti d'arte. Parlottavano tra loro a bassa voce, come si trovassero in un vero museo. La cosa che più mi sconvolse fu che, pur rendendosi conto che noi eravamo VIVI! continuarono a comportarsi normalmente , come fosse la cosa più naturale del mondo.
Guardai la mia compagna di sventura, il cui volto era una maschera di sofferenza e orrore.
Anche lei stava osservando quel gruppetto, due uomini e due donne, tutti elegantemente vestiti, le donne addirittura ornate di cappelli con veletta.
Una delle due si avvicinò a me, accarezzò le mie gambe ricoperte dal ferro dell'armatura, rivolgendo il viso in su e guardandomi negli occhi, con uno sguardo che avrei potuto classificare tra il voluttuoso e lo psicopatico.
"Lo voglio, amore!" disse poi, rivolgendo lo sguardo a uno dei due uomini "Starà benissimo nella nostra collezione!" aggiunse "Certo tesoro, tutto quello che vuoi!" rispose l'uomo, convinto.
L'impeto di rabbia folle e improvvisa che mi assalì, per quella assurda situazione, in cui ero stato sequestrato, sfigurato e, probabilmente, stavo per essere venduto a un'altra coppia di pazzi sadici, mi spinse a muovere contemporaneamente, con forza, le gambe sospese nell'aria contro la donna. La presi in pieno stomaco e quella, piegandosi in due e cadendo bocconi sul pavimento, iniziò a vomitare sangue. Una sensazione di euforia s'impadronì di me, aveva avuto quello che si meritava quella stronza e ce ne sarebbe stato anche per gli altri, se mi fossero capitati a tiro.
Ma erano troppo presi ad aiutare la donna colpita, oltremodo sorpresi da quell'imprevisto sviluppo della situazione. Guardai la ragazza-angelo. Scuoteva la testa, piangendo in silenzio.

Un ronzio pervase la stanza, poi un forte rumore simile a delle sirene si estese per tutta la stanza. Forse era salvo, forse avrei potuto continuare in qualche modo a vivere. L'armatura che mi imbrigliava sarebbe stata per sempre la mia prigione nei più atroci incubi. La donna con la veletta si portò le mani al ventre allontanandosi insieme al gruppo di persone, che bruciassero tutti all'inferno. La ragazza appesa ai ganci stava rantolando, fiotti di sangue le fuoriuscivano dalla bocca riversandosi a terra come un macabro fiume. Il suo corpo oramai era svuotato, ma almeno avrebbe ricevuto un degno funerale: Una bara con candidi fiori e petali di rose, sarebbe divenuta un vero angelo. La mia testa confusa non registrò immediatamente il forte calcio che mi venne inferto alle parti bassi con una ferocia inaudita. Una voce metallica mi perforò i timpani.
-Sei un bastardo, cosa credevi di fare? Io ti ho trasformato in un'opera d'arte vivente, e questa è la tua ricompensa? Tutti gli altri non erano degni, solo animali da macello. In te avevo notato qualcosa, avresti potuto essere il mio fiore all'occhiello, avrei elevato l'arte allo stato puro, avrei raggiunto l'apice dell'estasi.
L'uomo dalla maschera verde mi parlava attraverso la griglia metallica posizionata sulla bocca, la morte forse mi avrebbe finalmente liberato da quell'inferno, ma le parole che mi tuonò nelle orecchie mi fecero rabbrividire. Alzai gli occhi verso la figura esamine della ragazza angelo poi proferì le uniche sillabe che riuscì a pronunciare:-Farò tutto ciò che mi ordinerai, padrone.

-Libera!-
C'era una voce, forte, imperiosa. Era lontana, molto lontana, ma in qualche modo catturò la mia attenzione.
-Libera!-
Ogni volta che diceva quella parola un flash bianco cancellava tutto quello che vedevo, accecandomi. Poi la vista ritornava. L'uomo con la maschera verde era lì, sopra di me, ma la sua immagine era meno chiara. Anche la ragazza diventava meno... consistente.
-Libera!-
Ancora spariva tutto, un'altra volta, per un tempo indefinito. Poi la vista ritornava, sempre, ma mano a mano che tutto era meno chiaro, il dolore diminuiva diventando sopportabile, ovattato. Il bastardo continuava a parlarmi, ma adesso le sue parole erano confuse, tanto che non si capivano più. Una cosa mi colpì particolarmente: potevo vedere attraverso di lui, come se stesse diventando trasparente.
-Libera!-
Trattenni il respiro, senza fatica, e restai in quello stato talmente a lungo che temetti di non uscire più dal bianco. Poi tornò ancora l'uomo con la maschera verde, quasi invisibile. Lo sentii dire: -Lo stiamo perdendo! Non c'è più nulla da fare...-
Un'altra voce si sovrappose: -Sarebbe stato un miracolo se fosse uscito da un incidente così.-
Voltai lo sguardo e, prima che tutto divenne bianco, vidi ancora la ragazza; stava venendo da me, volando con le sue ali angeliche.